L’animalità dell’uomo: l’essere umano messo a nudo da Golding e Derrida

Vediamo come i due autori abbiano un punto di contatto nella riflessione sull’essere umano e il suo stato di animale. 

Dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, l’essere umano è stato oggetto di dibattito sia nella letteratura che, soprattutto, nella filosofia. Questi due autori mediteranno sull’essere umano, portandolo in una dimensione più vicina a quella dell’animale.

Un ritorno indesiderabile alla propria natura

Oramai Il Signore delle Mosche, di William Golding, è ad oggi uno dei più romanzi più importanti dello scorso secolo. Attraverso le tematiche trattate dallo scrittore tale capolavoro si avvicina ad Orwell e Huxley in maniera innovativa; esso non narra propriamente di una distonia ma di come una società può andare in frantumi raccontando l’intrinseca natura dell’uomo, riportandolo allo stadio di bestia e mettendo a nudo la sua animalità.

La trama riprende le tipiche favole avventurose di naufragi e le imprese di questi ragazzini sopravvissuti ad un disastro aereo dopo che quest’ultimo precipitò su un’isola deserta. I protagonisti devono far fronte comune per poter sopravvivere fino all’arrivo dei soccorsi. Lungo questa attesa che sembra infinita per i ragazzini, egli si troveranno a confrontarsi la loro stessa natura, la loro animalità, che troverà il suo rappresentante nella figura del Signore delle mosche. I ragazzi creeranno questa figura soprannominandola la Bestia. Vi saranno varie occasioni in cui i ragazzini entreranno in contatto con questa figura, anche se solo in un effettivo dialogo è presente un faccia a faccia. Con il tempo la società creata dai protagonisti andrà frantumandosi fino a collassare su sé stessa facendoci capire come l’unico vero vincitore e protagonista del romanzo, come ci conferma il titolo stesso, è il Signore delle mosche. L’indiscusso dominatore dell’animo umano

La confessione e la complessa relazione con l’animale

L’animale che dunque sono
Una delle più importanti opere del filosofo francese Jacques Derrida, L’Animale che Sono, parla del rapporto uomo-animale destrutturando tutta la tradizione filosofica la quale si è occupata di tale rapporto particolare.
Un primo cambio di rotta, che compie il filosofo francese, è quella di non definire il discrimine tra uomo e animale con il logos, criticando la celebre frase di Aristotele dove afferma che l’uomo è zoon logon echon. Ciò che differisce uomo e animale è l’autobiografia; però in una forma molto particolare, quella in cui si parla delle proprie colpe: il genere della Confessione; facendo l’occhiolino a Rosseau e ad Agostino.

Derrida parla della relazione con l’Altro, prendendo spunto dalla filosofia di Emmanuel Lévinas, dove egli parla della nudità ovvero, ci vuole dire che nello sguardo dell’Altro-animale, dell’a-umano come verrà in seguito definito, io non solo mi sento nudo ma provo anche pudore; l’essere umano è l’unico animale che decide di coprirsi per nascondere la sua nudità in quanto prova vergogna, recuperando la dimensione del peccato originale e connettendola con la dimensione della Confessione: essendo l’essere umano l’unico a provare la colpa in quanto possiede la dimensione del pudore, egli è l’unico in grado di scrivere il genere della Confessione, totalizzando la sua colpa. Al di fuori di questa dimensione della colpa, l’essere umano ha caratteristiche animali, arrivando addirittura a dire che io sono un animale storpiando la famosa formula cartesiana: l’animale che dunque sono.

Lungo questo tragitto, tralasciando degli importanti particolari, che non ci interessano, Derrida cerca di definire l’animalità dell’essere umano, quest’ultima insita nell’uomo, distruggendo quell’arrogante discorso il quale ostinatamente cerca di porre a tutti i costi l’essere umano come un animale con qualcosa in più, tralasciando l’aspetto dell’animalità stessa.

 Il Signore delle mosche come l’Altro-animale

Tutta la meditazione del filosofo entra in connessione con la storia del Signore delle Mosche. Derrida parla del discrimine tra uomo e animale come la nudità e ancora più in particolare la vergogna e il pudore. L’uomo è nudo in quanto, cosciente e quindi sapendosi di essere nudo, si copre vergognandosi e provando pudore per la sua nudità. I ragazzi del romanzo con il tempo perdono questa dimensione di nudità, non sono più nudi perché non si sentono tali, non sono nudi perché non si vergognano. Più si va avanti, più la nudità sparisce, vengono a mancare di questa nudità che, come dice lo stesso Derrida, non è un rapporto pacifico ma, anzi, violento; notiamo infatti come i ragazzini, con il tempo, diventino sempre più irrequieti, fanno vincere le paure, si immergono in quella che è la loro animalità. Non provano vergogna per le loro azioni violente nei confronti di un povero maiale che per il puro gusto di farlo, motivati in parte anche dalla paura, infilzano la testa dello sconfitto, il maiale, su un bastone appuntito e lì la fanno rimanere, in preda alle mosche, al marcio.

Più si va avanti, più i ragazzini fanno vincere la violenza più che la parola, il logos; ci troviamo difronte a degli esseri umani che perdono il logos, perdono la facoltà di rispondere in quanto non utilizzano il dialogo; faccenda che uscirà nella meditazione di Derrida, cercando di distruggere il logos come discriminante, nella quale si arriva ad inferire che la non risposta dell’animale rende quest’ultimo tale cioè, questi ragazzini sono umani, ma non sono quegli “animali più uno” che tutta la filosofia dice dell’uomo quando rapportato all’animale. Però, andando a vedere Derrida, hanno perso la cosa più umana che c’è, l’assumersi delle colpe: i ragazzini non sono più in grado di poter scrivere una Confessione in quanto non sono coscienti delle loro colpe, in quanto gli manca la vergogna.

Il passo più importante, però, è quello del dialogo con il Signore delle mosche; quest’ultimo è la testa di maiale infilzata che sotto forma di allucinazione parla a Simon, uno dei protagonisti. Il fatto che sia allucinazione ci fa riflettere: il Signore delle mosche non esiste, come lui stesso afferma, al di fuori della mente dei ragazzi. Questa allucinazione diventa l’a-umano che ci rende nudi, è l’Altro-animale che ci guarda con uno sguardo più penetrate, è la gatta di Derrida che rende nudo il filosofo, è lo sguardo che ci rende umani. Non a caso Simon è quello più sano di tutti quanti, è colui che più di tutti vive lo sguardo dell’Altro, in quanto cristiano egli vive Dio, vive lo sguardo dell’a-umano. Il Signore delle mosche fa capire a Simon che non c’è differenza vera e propria tra l’uomo e l’animale; come Derrida verso la fine del suo seminario arriverà a dire: anche l’animale può provare una sorta di pudore e vergogna seppur egli non si coprirà, non sentirà la colpa. Simon essendo cristiano può veramente sentirsi umano in quanto ha la colpa, può scrivere una Confessione… purtroppo egli non farà una bella fine e con la sua morte, con il suo mancare, il mancare definitivo, i ragazzi, metafora dell’umanità, si confermano animali. Il vincitore è il Signore delle mosche in quanto nessun essere umano può sbarazzarsi di lui, del Signore delle mosche insito dentro ognuno di noi; lo possiamo scacciare tramite la colpa ma fino ad un certo punto, perché sia Derrida che Golding ci ricordano che, seppur esiste la discriminante della confessione, l’uomo è un animale: l’animale che dunque è.

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