Hugo Cabret, Alita e la cyberpsicologia: i robot sostituiranno l’uomo?

Ti turba che io non sia completamente umana? Sei la persona più umana che abbia mai conosciuto! Il film ambientato nel 26esimo secolo racconta di Alita, una cyborg senza alcun ricordo della sua vita precedente, fatta eccezione per l’incredibile addestramento nelle arti marziali memorizzato dal suo corpo; diventa una spietata cacciatrice di taglie, sulle tracce dei peggiori criminali del mondo. Un film che parla di Cyborg ?                                                                                                                                                La storia inizia nel 2563, la Terra è devastata a causa di una grande guerra avvenuta qualche centinaio di anni prima, contro le forze armate di Marte. Solo due città sono sopravvissute: La città di ferro, apparentemente un territorio moderno e  futuristico, che ha subito in realtà una regressione “barbaresca”; la seconda, Zalem l’ultima delle città sospese, il cui accesso non è consentito.
In questo scenario, la protagonista è Alita, una cyborg-guerriera, la quale viene ricostruita, dopo essere stata trovata sul punto di morte, dal dottor Dyson Ido. Passano i giorni e la ragazza diventa la sua assistente, sviluppando nel mentre una forte curiosità, paragonabile a quella dei bambini durante la crescita, su come arrivare a questa fantomatica Zalem, gestita dal deus ex machina Nova. Alita sente di essersi dimenticata qualcosa di importante, una parte di sé, sa che le sue grandi abilità fisiche derivano da una vita precedente abbastanza intensa.
Andando nel dettaglio, amore, tempo e memoria sono le tre costanti che attraversano questo film, come del resto in tutte le narrazioni post-umane. L’amore puro, vitalizzante, sembra la classica cotta adolescenziale, a tratti insensato e incomprensibile, ma allo stesso tempo pieno di ostacoli dettati dal fato. Il tempo come nelle migliori pellicole cinematografiche scorre velocemente, raccontandoci a sequenze, la crescita e la mutevolezza della protagonista da un lato, dall’altro i cambiamenti che le sue scelte determinano nell’ambiente che la circonda.
Infine la memoria, con i suoi flashback sulla guerra e su altre vicende ricostruisce materialmente il contesto che lo spettatore sta vivendo, e al tempo stesso la storia di questo mondo futuristico, che sembra solo in superfice, esteticamente e concettualmente lontano dalla nostra contemporaneità.
La memoria
è in sintesi la componente più importante, quella che serve ad Alita per capire e comprendere sé stessa, scoprire la sua personalità e il senso intrinseco della sua vita.
Cambiando prospettiva
, avete notato, che la protagonista è l’unica interamente costruita con la tecnologia della CGI ? Gli altri attori di grande spessore, sono tutti presenti fisicamente nel film, come Christoph Waltz, sempre pungente e ordinato, o anche Jennifer Connelly e Mahershala Ali, che sono gli scagnozzi di Nova, interpretato in un maxi-cameo da Edward Norton.
Dopo queste premesse, un commento sul film? Non si può certamente dire che sia noioso, intrattiene, risulta godibile per il suo scenario e la sua grafica 3D, oltre che per la presenza di un cast tout court carismatico. È difficile riassumerlo sotto un unico genere, fa emozionare, regala scene tristi, sentimentali ed eroiche; ma soprattutto è pieno di una speranza che non muore mai, quella di sognare un nuovo mondo e di raggiungerlo non solo con la vista ma anche con tutto il corpo, con i propri cari e le persone che si amano, un mondo che non sia esclusivo, ma che sia condivisibile per tutti. Insomma Alita è l’eroina del futuro, la risorsa meccanica più umanizzata di tutte, che può sconfiggere il male dell’umanità e forse chissà, renderla migliore e farla progredire nel vero senso della parola, eliminando totalmente le sue negative peculiarità storiche e antropologiche.    Automi in Hugo Cabret                                                                                                                                                     Chiunque a primo impatto, potrebbe considerare Hugo Cabret come un film per famiglie. Gli elementi ci sono tutti: un plot complesso ed un po’ inverosimile, un lieto fine monumentale e tipicamente hollywoodiano, una struttura canonica e standardizzata, che senza troppe invenzioni si affida alle scene classiche nei momenti tradizionali, con i giusti inseguimenti, i giusti cliffhanger e la giusta tensione. C’è pure l’immancabile storia d’amore che sembra germogliare fra i due giovani protagonisti. Ci sono i bambini, che sono buoni e soprattutto orfani, ci sono messaggi direttissimi sull’importanza della famiglia, sui padri e sul dolore dell’abbandono. E ancora: le finte morti, la produzione magniloquente su ambientazione d’epoca, la scelta delle inquadrature spesso suggerita in favore del 3D. Eppure l’intrattenimento non è uno scopo che Scorsese ha mai voluto raggiungere e forse non lo vorrà mai. Quindi ci chiediamo cosa può essere Hugo Cabret oltre un film per famiglie. Prima di tutto, com’è ovvio in un film che ha fra i protagonisti Georges Méliès, c’è il cinema. Ce n’è così tanto che pare di assistere a un documentario sui primi decenni del Ventesimo secolo. In Hugo Cabret, comunque, c’è più che un semplice parlare di cinema: lo si fa e lo si disfa, lo si mostra nel suo farsi. Scorsese si trova fra le mani un film sul cinema e ne sfrutta al massimo le potenzialità nel nome di un divertimento bambinesco, creando e ricreando le pellicole di cent’anni fa. Rifà L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat, quello che nel 1896 aveva terrorizzato gli spettatori in sala, ricrea le scenografie di Méliès in 3D, mostrando di nuovo in sala i suoi film, concedendo loro spazio in una nuova veste: un omaggio al quadrato, insomma. Inoltre costella la sua pellicola di sguardi filtrati: Hugo che guarda dalla serratura, Hugo che guarda da dietro i quadranti degli orologi, che spia le storie di coloro che lavorano alla stazione attraverso le grate, eccetera. In pratica, trasforma il suo giovane protagonista nello spettatore stesso. Guarda la realtà, guarda le storie degli altri, senza poterle cambiare: è l’idea del vedere la vita come in uno specchio che in realtà poi è uno schermo, o viceversa. E non è ancora tutto. Perché Scorsese non avrebbe mai lavorato su uno script apparentemente troppo semplice e allora ci ha messo anche più materiale di quanto non fosse presente nei suoi ultimi film. Hugo Cabret ha una densità di messinscena inusuale anche per la media del cinema d’autore. Perché ci sono, fra gli altri, anche un topo e un automa, una chiave a forma di cuore e un sacco di orologi. Prima di tutto gli orologi. Hugo è un orologiaio come lo era il padre defunto, è di conseguenza un genio a riaggiustare i meccanismi rotti. E fin qui nulla di strano. Poi c’è l’automa, unica cosa lasciatagli dal padre. È rotto, e Hugo passa buona parte del suo tempo a rubacchiare ingranaggi in giro per aggiustarlo, per ridargli la vita, visto che è sostanzialmente il suo unico amico e incarna la figura paterna. Il suo scopo, almeno all’inizio, è dare la vita a un meccanismo fatto di ingranaggi. E qui, a mio parere si aprono due piani di riflessione. Uno è psicologico: come si fa a ridare vita a ciò che non c’è più e che il tempo ha spazzato via? Il secondo è metafisico: cosa significa dare la vita ad un oggetto? In particolare c’è la scena in cui Hugo aggiusta il topo, che era rotto. Dopo, il topo funziona, forse anche troppo. Perché la scena è ritoccata digitalmente, dando l’effetto che non solo funzioni, ma che sia vivo.

L’automa di Hugo Cabret, anche se inserito in una favola ambientata negli anni 30, ci riconduce ad automi governati dalla meccanica ancora più datati, come quelli costruiti dall’orologiaio Pierre Jaquet-Droz, tra il 1768 e il 1774.
Uno di questi, Writer Boy, riusciva a scrivere un testo fino a 40 lettere in lunghezza, su 4 righe totali, tutto accompagnato da un lento movimento del polso e degli occhi che seguono il testo.  Nuova branca: la Cyberpsicologia                                                                                                                                       La cyberpsicologia ha lo scopo di studiare gli aspetti psicologici suscitati e implicati nella relazione uomo-computer, sia al livello di macchina che di network. Oggi è necessaria la comprensione di come le persone utilizzino la rete e soprattutto, come queste modifichino i comportamenti e le strutture psicologiche nell’individuo stesso. Dunque la reciprocità nella relazione uomo-macchina e la comunicazione in continuo divenire. I primi studi sui cosiddetti internet addicted hanno evidenziato un’alta correlazione tra questa dipendenza e patologie psichiatriche, soprattutto con l’abuso di sostanze, sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), depressione, ostilità e disturbi d’ansia sociale. 
Lo scontro tra psicologi, psichiatri ed educatori di vecchia generazione, e i nuovi nativi digitali, portatori di disfunzioni amplificate dal mondo di internet, è sfociato nella nascita di una disciplina psicologica volta allo studio del così detto “uomo informatico”. Quest’uomo porta con sé nuove strutture cognitive, di relazione e più in generale, di funzionamento psicologico. La mente del nativo digitale è in continua evoluzione e non cammina allo stesso passo delle vecchie generazioni. Il problema è che osservando le strutture sociali in un’ottica antropologica si è notata una direzione costante verso la frammentarietà. Da sempre l’uomo ha attribuito l’appartenenza alla propria tribù un significato profondo. Nella realtà di oggi internet ci impone una nuova relazione con il mondo e con gli altri. La relazione che sembrerebbe partire dal singolo individuo e diramarsi verso l’altro, in realtà parte dalla moltitudine di account e profili che creiamo quotidianamente. Appare evidente come una struttura non necessariamente forte possa crollare di fronte a questo confronto.
Inoltre bisogna tenere conto sia dei vantaggi che internet offre, quali la fruibilità delle informazioni e la rapidità della comunicazione che gli svantaggi, come lo sviluppo di una vera e propria dipendenza. Windows permette all’utente di svolgere un numero enorme di operazioni, ma che avvengono attraverso un’unica modalità di esecuzione. Questa riduzione delle facoltà creative potrebbe comportare non pochi rischi alle generazioni future tra cui il progressivo distacco dalla realtà.             L’uomo?                                                                                                                                                                                   Ricordo una frase di Paul Daugherty “La tecnologia è neutrale, è il modo in cui l’uomo la utilizza che può cambiare il mondo”.
Benché l’Intelligenza Artificiale sia concepita oggi come una delle tecnologie più all’avanguardia, le sue origini risalgono agli anni Cinquanta, quando per la prima volta si è cominciato a parlare di tecnologie di potenziamento per i computer.
Ma cos’è l’Intelligenza Artificiale? Per il Guru sono da intendersi tutti quei sistemi che possono estendere le capacità umane di sentire, comprendere, agire e imparare. E per Paul Daugherty “l’innovazione che porterà nelle nostre vite sarà qualcosa di incredibile, paragonabile solo all’invenzione dell’elettricità”.
Una svolta epocale, certo, ma che mai sostituirà l’uomo, bensì incrementerà le potenzialità del vivere quotidiano sia nella sfera privata che professionale. Sfatiamo il mito per cui i robot sono una minaccia, l’Intelligenza Artificiale non distruggerà l’umanità, ma le si affiancherà semplificando alcune operazioni ancora oggi nelle mani dell’uomo.
Le macchine non ruberanno il lavoro. I robot non sostituiranno il fattore umano, ma contribuiranno a creare nuovi posti di lavoro con il nascere di professioni a oggi inesistenti. Le macchine devono essere intese come innovazioni tecnologiche con cui collaborare, spetta all’uomo aggiornare le proprie competenze ed abilità per stare al passo con il progresso.
A modificare non sarà l’approccio al lavoro, ma i termini in cui l’uomo basa la propria collaborazione che non deve essere uomo-macchina, ma uomo + macchina, un’ addizione che consente di raggiungere nuove frontiere.
L’Intelligenza Artificiale è una intelligenza collaborativa che vede un rapporto bidirezionale tra l’uomo e la macchina: mentre l’uomo con le sue competenze crea la macchina e la dota dei dati necessari per farla funzionare, la macchina in risposta, migliora le possibilità dell’uomo di valorizzare la propria creatività.
Non esiste una linea d’arrivo. L’Intelligenza Artificiale non ha un traguardo da raggiungere perchè essa continuerà a svilupparsi e a crescere con noi.                                                                                                                                 Elvisa Pinto

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