Pirandello, De Andrè e il sociologo Bauman illustrano in che modo l’uomo moderno è intrappolato nelle strette norme dettate dalla società.

La società ingoba l’individuo in una serie di schemi che fanno nascere in lui la consapevolezza di essere in una prigione mentale o, come cantato da De Andrè, materiale. Nel Novecento entra in crisi l’idea di una realtà oggettiva e ben definita, soprattutto a causa dell’assenza di punti di riferimento fissi. Si afferma la frantumazione dell’individuo in una serie di stati incoerenti ed in continua trasformazione: l’inconsistenza dell’io causa nell’uomo smarrimento e dolore.

La “trappola” della vita sociale pirandelliana
Secondo Pirandello gli esseri umani non sono altro che parte dell’universale ed eterno fluire della vita ma c’è la tendenza a distaccarsi da esso cristallizzandosi in forme attraverso cui il singolo viene fissato agli occhi degli altri attribuendogli delle maschere basate sui suoi atti più o meno abituali. L’uomo, però, si illude di essere uno, lo stesso per sè e per gli altri, ma in realtà è nessuno in quanto impossibilitato a costruire una propria identità ben definita ed oggettiva. L’autore muove una critica accesa verso la società, da condannare poichè si oppone al movimento vitale. La prima istituzione borghese da condannare è la famiglia, caratterizzata da una mescolanza di menzogna ed ipocrisia con legami di sangue ed affettivi. La seconda è il ceto socio-economico di appartenenza: la società è organizzata secondo un ordinamento gerarchico e gli individui sono condannati ad essere prigionieri di una misera condizione fatta di stenti, in cui ognuno è destinato a svolgere lavori monotoni e frustranti. L’individuo non riesce a riconoscersi nelle forme che gli si attribuiscono e spesso cerca di liberarsi da esse e dalle istituzioni sociali che percepisce come una trappola rispetto alla spontaneità del flusso vitale. Pirandello, però, aderisce ad una visione totalmente pessimista in quanto incapace di individuare tipi di società alternativi: la vita sociale è una prigione da cui non è possibile uscire.

Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va
La trappola sociale può manifestarsi anche attraverso una prigionia concreta, materiale, come in Nella mia ora di libertà cantata da Fabrizio De Andrè. La canzone appartiene all’album Storie di un impiegato ed è la storia di un impiegato idealista che durante il periodo delle rivolte studentesche del 1968 si ribella all’ordinamento politico e sociale vigente e viene condannato al carcere per aver tentato di far saltare in aria il Parlamento per vendicare “un potere delegato troppe volte ad altre mani”. Nella mia ora di libertà è una metafora che allude al rapporto tra l’individuo e il sistema sociale, al concetto di giustizia e alla ribellione dell’uomo quando si trova governato e vincolato da un potere nel quale non si riconosce. Mancanza di identificazione che si manifesta nell’insofferenza verso la condivisione di spazi comuni con i secondini, visti agli occhi del detenuto come pedine del sistema a cui si oppone. Il protagonista decide di non rispettare neppure l’ora d’aria che gli è concessa poiché percepita come una libertà illusoria e fugace. L’uomo riflette a lungo sulla propria condizione, sul rapporto con “lei”, la sua amata e sul ruolo delle istituzioni che impediscono ai detenuti di godere della “primavera”. Il problema di partenza è ineliminabile in quanto la lotta ad un potere ne implica la formazione di un altro altrettanto forte e restrittivo, portando l’impiegato alla consapevolezza che non esistono poteri buoni. Per quanto deluso e disilluso il detenuto non si arrende alla ricerca di una soluzione, probabilmente inesistente, che possa insegnargli quale sia il crimine per non passare per criminali. La canzone si conclude con un’invocazione verso coloro che non si schierano, che in maniera omertosa assistono ma si mostrano indifferenti non volendo prendersi le proprie responsabilità: da qui l’aperta condanna di De Andrè che afferma che “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti.”

Il carcere panottico
Secondo Bauman la modernità nasce come risposta al crollo dell’ancien régime, come una fuga dal terrore dell’assolutismo regio, come esito non previsto di una crisi di potere, piuttosto che come una progettazione precisa. Il distacco degli individui da una tradizione lunga e asfissiante ha fatto sì che si costituisse un senso di inquietudine ed una catena di interazioni umani. Occorreva rispondere ad un simile “sradicamento” con un altro radicamento: occorreva destituire il potere introducendone un altro altrettanto forte che potesse porre rimedio all’incertezza dilagante imponendosi come nuovo ordine a livello globale. Per dare una corretta analisi della società del Novecento, Bauman riprende il Panopticon, il carcere ideale progettato dal giurista Bentham nel Settecento che avrebbe permesso ad un singolo sorvegliante di tenere d’occhio ogni detenuto in modo che tutti,sentendosi osservati, svolgessero al meglio il proprio dovere. Il sociologo ha elaborato una teoria improntata sulle strutture panottiche, ovvero su quelle istituzioni quali scuole, ospedali, carceri, fabbriche, cliniche psichiatriche e caserme militari in cui ci fosse la capacità di controllare dall’alto al basso tutti gli individui della società. La modernità viene a formarsi con gli obiettivi di eliminare la casualità, restaurare la certezza, rendere prevedibili i comportamenti dei membri. Il primo fine di tale sistema sociale era il controllo degli individui,il secondo la felicità, concepita come eliminazione delle incertezze e raggiungibile tramite una limitazione della possibilità di scelta e la conseguente riduzione di ansie e timori. Le organizzazioni panottiche diventate fonti principali della nuova e rassicurante certezza, modellavano gli individui rendendoli adeguati rispetto a standard fisici e mentali che rispondono ad un concetto di idoneità sociale.
Angela Orsi