La pena di morte è legge nel Brunei: il dibattito tra abolizionisti e non

Svolta integralista nel Brunei

Lapidazione per chi tradisce il coniuge e per chi intraprende relazioni omosessuali, amputazione della mano in caso di furto: è quello che prevede una legge entrata in vigore lo scorso 3 di aprile nel Brunei, una piccola nazione del sud-est asiatico. Un vero e proprio “ritorno al Medioevo”, questo, che ha scioccato l’opinione pubblica. La legge coranica, in osservanza al codice islamico della sharia, determina una vera e propria svolta integralista per il Paese. Un Paese in cui l’omosessualità era già di per sé un reato, punibile con pene di addirittura dieci anni di carcere, dove l’alcol è vietato e dove viene multato chi non prega il venerdì.

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Una direttiva questa di Haji Hassanal Bolkiah, sultano del Brunei dal 1967, nonché uno dei leader più ricchi del mondo (con circa 20 miliardi di dollari). L’Amnesty International, un’organizzazione internazionale impegnata nella difesa dei diritti umani, ha esortato il Brunei a fermare immediatamente l’attuazione di questa nuova legge, definita del tutto inumana e degradante, in quanto mette in atto torture e trattamenti esplicitamente vietati dalla Convenzione contro la tortura.

La pena di morte oggi nel mondo

Secondo le ricerche effettuate nel 2018 da Amnesty international, sono oltre 330 le esecuzioni accertate dello scorso anno: nello specifico, ne sono state eseguite due in Afghanistan, 28 in Arabia Saudita, otto in Egitto, tredici in Giappone, 217 in Iran, 44 in Iraq, 18 negli Stati Uniti, a Taiwan, in Thailandia, nello Yemen, in Pakistan e a Singapore. Attualmente più della metà dei Paesi del mondo (in particolare 142) ha abolito la pena di morte di diritto o de facto, cioè nella legge o nella pratica, mentre 56 la mantengono ancora in vigore.

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Due pensieri a confronto: il dibattito tra abolizionisti e non

Il dibattito filosofico sulla questione della pena di morte è più recente di quanto pensiamo e affonda le proprie radici soltanto verso la seconda metà del Settecento. Per secoli, infatti, la pena di morte è stata considerata e frequentemente utilizzata come il perfetto mezzo per il trionfo della vendetta e della giustizia: uno strumento del tutto efficace, legittimo e ordinario. Il primo a mostrare il carattere “naturale” della pena è stato Platone, secondo cui la morte rappresenta il male minore per un colpevole incurabile e che, a tal proposito, scrive: «…se uno è riconosciuto colpevole di omicidio, i servi dei giudici e i magistrati lo uccideranno e lo getteranno nudo in un trivio prestabilito, fuori della città; tutti i magistrati portino una pietra in nome di tutto lo Stato scagliandola sul capo del cadavere, poi lo portino ai confini dello Stato e lo gettino al di là insepolto; questa è la legge».

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Il primo a contrastare questa secolare corrente di pensiero è stato proprio Cesare Beccaria che, in “Dei delitti e delle pene” (opera nata nel cuore dell’Illuminismo), mette in luce il carattere del tutto inutile e ingiusto della pena di morte. Ingiusta perché “Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo?”. Inutile perché secondo il filosofo l’efficacia della pena non è proporzionale alla sua intensità, ma alla sua estensione: per esempio, la pena di morte è molto intensa, mentre l’ergastolo è molto esteso. Per Beccaria inoltre, a rigor di logica, è maggiormente producente il lavoro sociale piuttosto che la cruda, rapida e irreversibile morte. Per non parlare del circolo vizioso che essa potrebbe potenzialmente determinare: un utilizzo frequente delle esecuzioni causerebbe un’abitudine alla violenza e un’inclinazione a commetterla.

Un dibattito che sfocia nell’etica

Questo dibattito, oltre a mettere in luce due modi di pensare totalmente antitetici sulla concezione della pena, matura in uno spazio di riflessione molto più profondo: quello dell’etica. Due, infatti, sono le teorie morali principali a riguardo: quella retributiva e quella preventiva, rispettivamente concezione etica ed utilitaristica.

1) Alla visione retributiva (ad ogni reato corrisponde una giusta pena dantesca) appartengono i sostenitori della pena di morte. Gli antiabolizionisti seguono, infatti, una concezione etica della giustizia per cui “la pena di morte è giusta”. In altre parole, è giusto che chi ha compiuto un’azione malvagia subisca la stessa sorte. In filosofia, un esempio di antiabolizionisti sono Kant ed Hegel. Il primo, padre dell’imperativo categorico, sulla pena di morte scrive: “Se egli ha ucciso, egli deve morire“. Hegel, oltre a questo, sostiene proprio che il colpevole ha il diritto di essere punito perché solo la punizione lo riscatta ed è solo così che lo si riconosce come essere razionale.

2) Alla visione preventiva (che matura sotto l’eco di Beccaria) corrispondono gli abolizionisti, i quali sono seguaci di una teoria utilitaristica (“la pena di morte non è utile”). La pena di morte è un male non necessario, e quindi non può essere in alcun modo considerata come un bene. Questo concetto è perfettamente esemplificato dalle emblematiche parole di Dostoevskij nel romanzo “L’idiota”: “E’ detto: ‘Non uccidere ‘. E allora perché se uno ha ucciso s’ha da uccidere anche lui? Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco.”

 

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