“Stanno cantando la leggenda di Tarzan. Per molte lune fu creduto uno spirito malvagio, un fantasma tra gli alberi.” Ad attendere Tarzan in Congo non c’è banda o comitato di benvenuto. Solo, l’avidità interessata di Léon Rom, inviato del re belga in Congo, che ha fatto sua l’idea di ridurre in schiavitù il Paese così da esportare la maggioranza dei diamanti del luogo. Il film The legend of Tarzan è un live action diretto da David Yates, regista di quattro film della saga di Harry Potter e di Animali fantastici e dove trovarli. La pellicola riprende la storia di Tarzan otto anni dopo che ha lasciato il Congo insieme alla sua Jane, (si tratta dunque di un sequel che promette di riprendere il mito del personaggio disneyano arricchendolo di nuovi elementi e raccontando la storia da un’altra prospettiva). Tarzan vive a Londra con sua moglie Jane, è conosciuto come Lord Greystoke, John Clayton III, e si è ormai lasciato alle spalle l’infanzia passata in Congo. È solo quando George Washington Williams, unico personaggio storico nella trama, gli chiede in tornare in quelle terre, come emissario del parlamento per appurare se in Congo i colonizzatori praticano la schiavitù, che Tarzan farà i conti con il suo passato, con i bei ricordi e con ciò che vuole veramente. La trama promette bene, ma il film avrebbe potuto e dovuto puntare molto di più sulla psicologia del protagonista, in contrasto fra il suo lato bestiale e quello civilizzato, ma nonostante questo tema sia presentato all’inizio del film non viene spiegato e trattato con la dovuta profondità nel corso della trama. Si può dunque affermare che i sentimenti soccombono per lasciare spazio all’azione, un’azione artefatta ed eccessivamente costruita. Buona la scelta di creare una ‘spalla’ per Tarzan, ovvero George Washington Williams, che smorza la tensione di certe scene delle battute ad effetto. Quello che non convince invece è il desiderio, da parte del regista, di rendere Tarzan una specie di supereroe, con abilità fisiche fuori dalla norma, una sorta di Spiderman che salta con agilità da una liana all’altra, un personaggio addirittura oggetto di leggenda. La figura di Jane Sebbene in nessun modo la Jane di Disney possa essere definita una donna succube, nel corso del cartone la vediamo continuamente salvata da Tarzan. Il suo mondo e la sua vita non hanno una grande importanza ai suoi stessi occhi; con la scelta di restare al fianco di Tarzan i suoi studi sugli animali perderanno completamente di importanza, dato che si suppone che nella foresta in “costume da Jane”, tra una liana e l’altra, le serviranno a poco. Infatti la vediamo nella sequenza finale spostarsi tra gli alberi con il suo uomo. Non rimane nella foresta per studiarla o per difenderla dai predatori eppure anche questo finale sarebbe stato possibile e comunque “a lieto fine”, come nella tradizione Disney. Pur essendo una ricercatrice appare totalmente imbranata nella gestione degli oggetti e degli animali che dovrebbero essere di sua competenza, ed é Tarzan a mostrarle le meraviglie della foresta. Alla fine lei decide di raggiungere Tarzan, rinunciando al suo mondo, ma solo dopo che il padre non solo le ha dato via libera ma l’ha apertamente incoraggiata. Segnaliamo comunque che l’imbranatezza di Jane é controbilanciata in parte dalla presenza del personaggio secondario Terk, l’amica gorilla di Tarzan che invece é decisamente svegliotta. È l’autorità paterna un’altra delle istituzioni mai messe in dubbio dalla Disney, mentre invece lo é stata quella materna, attraverso la figura della “matrigna”. Alla fine il gorilla capobranco muore trasmettendo al “figlio adottivo”, finalmente riconosciuto, i suoi poteri. Il potere é una dura responsabilità, altro luogo tipico dell’immaginario americano: la realtà è che il comando esiste una gran quantità di gente è disposta ad obbedire senza discutere, per il solo fatto che il capo “ha superato delle prove”. Alla fine anche in “Tarzan” come nel “Re Leone” dove Simba ruggisce dalla rupe coi sudditi felici d’essere sottomessi, il nuovo signore della foresta lancia il suo grido di potenza virile, con al fianco, in posizione subalterna, come Nala con Simba, Jane: tutti devono sapere chi detiene il potere.
“Tarzan”, come qualsiasi altro prodotto dell’industria mediatica, può essere interpretato solo se si assume che nella nostra società, come in tutte le società sino ad ora esistite, vi é sempre stata una lotta tra maschi e femmine, lotta che di volta in volta ha prodotto “equilibri” variabili a seconda dei rapporti di forza che si stabilivano tra i due generi. Si deve comprendere la natura di questo equilibrio, perché l’equilibro non significa pari forza, ci sono equilibri che vedono permanentemente la bilancia pendere sempre da una stessa parte, anche se in maggiore o minore misura. Da questo cartone, come dagli ultimi 5-6 cartoni Disney, possiamo dedurre l'”equilibrio” tra i sessi che si é venuto a creare in questi anni ottanta-novanta, un periodo che dal punto di vista della lotta di genere, specie nei paesi anglosassoni, ha assistito ad una fase di sedimentazione e strutturazione del movimento femminista.
Ma sono, quelli Disney, film che rassicurano il potere maschile. La sua essenza rappresentata quasi sempre da un busto ben dotato di muscoli non si tocca. Noi non potremmo mai immaginare in un cartone Disney, e quando lo vedremo vorrà dire che si sarà compiuta o sarà imminente una rivoluzione di genere, un’eroina che disobbedisce al padre senza che alla fine il padre non venga in qualche modo giustificato e assolto, non potremo ammirare un’eroina che si innamora di un uomo che non é dotato di attributi mascolini ben in evidenza, e che abbiamo visto, costituiscono un emblema di dominio, non incontreremo sullo schermo una donna il cui eventuale potere non dipenda in qualche modo dalla benevolenza maschile, incoronata regina incontrastata mentre il maschio si fa accarezzare la testa come fosse un bambino. Il comportamento umano ed animale secondo gli etologi La prospettiva etologica di Konrad Lorenz contribuisce a correggere le interpretazioni culturali ed ambientali rigide del comportamento umano e animale, alla luce della complessità e varietà dei comportamenti concretamente osservabili. La prospettiva psicologica comportamentistica mirava bene ai meccanismi comportamentali comuni alle varie specie animali; in ogni specie animale ci sono nondimeno comportamenti specifici non indagabili ponendo tutti gli animali in una situazione sperimentale identica. Gli animali dovevano dunque essere studiati nel loro ambiente, liberi di manifestare il proprio comportamento naturale: è questa la differente prospettiva tipica dell’etologia, appunto lo studio del comportamento degli animali nel loro ambiente naturale. Osservando bene il comportamento di varie specie animali difatti, si sono non solo evidenziati comportamenti propri di una particolare specie animale ma pure individuati meccanismi comuni come l’imprinting, apprendimento precoce per impressione o impronta o marchio nei piccoli di molte specie animali che ne media e dunque ne consente l’attaccamento ai propri genitori: l’individuazione di processi comportamentali comuni ha portato l’etologia ad una generalizzazione dal mondo animale al mondo degli uomini, per cui il comportamento umano, pur più complesso, e tanti fenomeni sociali, dalle relazioni di gruppo alla guerra, ben ricondurrebbero a meccanismi biologici e di sopravvivenza della specie propri degli stessi animali