La giustizia sociale e l’odio raccontati dal film “La haine” e Machiavelli

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“E’ molto più sicuro essere temuto che amato” scriveva Machiavelli. “La haine” ci dice “l’odio chiama l’odio”. Perché?

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Nel 1995 usciva al cinema “L’odio”, il film di Mathieu Kassovitz che viene citato in varie canzoni, e ha ispirato interi album. Qual è il senso di citare questo film? E cos’ha a che fare col Principe di Machiavelli?

L’odio chiama l’odio, e infetta gesti e gente

Il film di Kassovitz si svolge durante le ultime ore di un ragazzo, Abdel, che è stato pestato e ridotto in fin di vita dalla polizia. Tre suoi amici vivono una periferia di Parigi smossa dalla rabbia dei manifestanti, stravolta dalle risse e le proteste, in una pozza di violenza che nel frattempo continua ad espandersi incontenibilmente.
“L’odio” ha in sé tutta la brutalità di una parte della società che da sempre si tenta di oscurare, che mostrata nel 1995 è un’azione di peso tale da sconvolgere una massa alimentata a pane e televisione.
La violenza da parte della polizia non è uno di quegli argomenti su cui ognuno di noi si sente chiamato ad esprimere il suo essere d’accordo o in disaccordo, come spesso succede nel 2020. Questi episodi hanno fratturato le ossa di una periferia già di per sé dimenticata dalle istituzioni, riducendola a un nucleo sociale che non ha possibilità di riscatto, impantanato nei pregiudizi degli altri. Il peggio è che gli abitanti di una zona del genere vengono classificati come gli ultimi, senza speranze e futuro: ciò permette casi in cui le forze dell’ordine si sentono autorizzate a trattarli come qualcosa che resta unicamente nelle loro mani; così c’è una morte, come quella di Abdel, che pensano possa rimanere in silenzio perché a nessuno importa di questa gente, gente che non ha voce.

Non è uno zoo, è “solo” la realtà

“Non siamo mica a Thoiry” è una delle frasi del film che viene citata per fare riferimento alla tipologia di rapporto che si crea con le autorità in uno scenario senza colori come quello delle periferie parigine. Thoiry non è altro che un comune francese a ovest di Parigi, che deve la sua fama al suo zoo: la frase serve esattamente a dire “non siamo mica allo zoo” quando i tre protagonisti del film vengono chiamati insistentemente da due giornalisti, che iniziano a filmarli e a fargli domande come se fosse scontato che vivere in quell’ambiente equivalesse a prendere parte alle rivolte di quei giorni, potendoli additare come dei delinquenti qualsiasi.
Il film vuole parlare soltanto di ciò che mette la polizia in cattiva luce facendo di tutta l’erba un fascio? Assolutamente no! E’ innegabile che questo film sia stato una parte mancante di tutto quello che veniva offerto normalmente alla visione del pubblico: non voleva dire che è tutto marcio, però sicuramente voleva svegliarci perché il marcio non ci viene mostrato. Se poi pensiamo che è uscito nel ’95, il ragionamento vale ancora di più di quanto varrebbe nel 2020: oggi abbiamo la sensazione di vivere in un momento in cui episodi simili siano “all’ordine del giorno”, quando in realtà abbiamo soltanto una maggiore possibilità di vederli rispetto a prima.
Non si tratta quindi di scegliere se essere con o contro la polizia, lo stato, le autorità: semplicemente si tratta di farci isolare il concetto di giustizia da situazioni in cui ci sembra o meno di vederla. Significa pensare in maniera critica: il fatto che, ad esempio, la polizia intervenga in favore di qualcuno piuttosto che della controparte, non significa per forza che noi dobbiamo trascurare di pensare chi avesse ragione in quel contesto soltanto perché è già stato deciso. Sorvolare, davanti a situazioni di questo tipo, significa accettare ciò che è stato stabilito da qualcun altro per noi, quindi c’è da scegliere di pensare con la propria testa.

Lo spunto del Principe: esaminare i propri dubbi

In diversi momenti del suo trattato più famoso Machiavelli si pone un dubbio molto interessante sull’intervento delle forze armate, in particolare quando si tratta delle milizie mercenarie. Su queste, il Principe (quella figura di potere ideale che si cerca di delineare) è tenuto a porsi alcuni interrogativi: cosa mi dice che quei soldati combattano per me e non per il proprio interesse? Cosa mi dice che le loro azioni siano mosse soltanto da un forte ideale di giustizia e non da qualcuno che li ha pagati più di me? Come faccio a sapere che non mi tradiranno?
Questa serie di domande aveva senso per il Principe ma forse per noi ne ha anche di più: dare per scontato che la giustizia sia sempre applicata da chi ha il coltello dalla parte del manico non serve a molto.
Nel Principe, Machiavelli racconta di situazioni in cui persone di potere hanno adottato un comportamento esemplare al momento giusto. Il problema però, è che poi si contraddice in diversi punti: ciò fa riflettere, e parecchio, non tanto per l’errare in sé, ma perché si tratta di situazioni legate in modi diversi sempre al concetto di giustizia.
Strano, no? La giustizia è praticamente il valore portante di tutta l’opera, eppure leggendo siamo portati a riconsiderarla tante volte. La dimostrazione è che la giustizia finisce con l’essere un compromesso che va bene alla maggioranza di quella determinata situazione, ma mai per tutti: alla fine ci viene insegnato che ci sarà sempre qualcuno, in quella totalità, per il quale quella soluzione sarà ingiusta.
Quindi? Non è meglio preferire ciò che è giusto per più persone anziché per poche? Può darsi, ma quel poco è ciò che viene dimenticato, cancellato con la sola colpa di essere poco, meno.

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