Mettiamo a confronto uno dei più grandi filosofi con un altrettanto grande regista: Kubrick e Platone escono dalla caverna.
Il mito della caverna di Platone, tanto conosciuto quanto di difficile comprensione continua a far riflettere e ad ispirare a distanza di secoli: è il caso di Burgess, autore del romanzo al quale “Arancia meccanica” è ispirato.
“QUANDO UN UOMO NON PUO’ SCEGLIERE CESSA DI ESSERE UOMO”
Nel 1971 Stanley Kubrick ci regalava uno dei film più disturbanti e incisivi del decennio. “Arancia meccanica”, tratto dall’omonimo romanzo di Anthony Burgess, è un tetro racconto distopico di un futuro in cui la violenza fa da padrone. La pellicola valse al suo autore la candidatura all’Oscar come miglior film, migliore regia, migliore montaggio e migliore sceneggiatura non originale ed esercita ancora oggi un forte impatto culturale. Il film si concentra sulla vita di Alex DeLarge, un ragazzo che coltiva la passione per la musica classica, la droga e l’ultraviolenza: egli, insieme ai suoi drughi, dopo aver commesso qualche furto, pestaggio o stupro, è solito trascorrere le serate al Korova Milk Bar sorseggiando “lattepiù”, latte corretto con sostanze psicotrope. Kubrick non ci risparmia di certo le scene di violenza: incisivo il pestaggio a calci e pugni di un anziano senzatetto, lo stupro di una donna davanti agli occhi del marito inerme, l’assassinio a sangue freddo di un’anziana e molti altri episodi che confermano l’essere una sorta di personificazione del male da parte del giovane protagonista. Ancora più destabilizzante è il fatto che né i genitori presenti ed apprensivi né una vasta e solida cultura abbiano salvato Alex dalla sua indole di carnefice. Solo lo Stato riesce ad intervenire nel tentativo di fermare il teppista: prima con la prigione, poi con il celeberrimo “Trattamento Ludovico”. Questa cura consiste nella visione forzata di alcune pellicole contenenti scene di violenza che iniziano a provocare in lui una sensazione di dolore e nausea che non cessa se non con la fine del trattamento stesso. La cura viene ripetuta per vari giorni consecutivi e Alex viene così costretto a pochi metri dallo schermo, legato, con delle pinze che gli impediscono di sbattere le palpebre, ad assistere a scene di violenza, di sesso e alle brutalità del regima nazista; il tutto è accompagnato dalla nona Sinfonia di Beethoven che, prima del trattamento, il protagonista tanto amava. Alla fine del percorso di cura, Alex viene sottoposto ad una sorta di test, al quale assistono importanti autorità civili e religiose: il giovane, portato su un palcoscenico, subisce abusi verbali e fisici ma quando cerca di rispondere con la violenza, si scatena in lui lo stesso senso di nausea provato nella visione delle pellicole e per questo si blocca. Anche durante la seconda fase del test, quando entra una splendida giovane seminuda, Alex, cercando di violentarla, viene nuovamente assalito dalla nausea. L’efficacia del trattamento è innegabile ma gli uomini di chiesa sottolineano l’annullamento del libero arbitrio verso il soggetto che, ora, non sceglie liberamente di operare il bene ma è costretto ad astenersi dalla violenza unicamente a causa del dolore fisico provato. E’ dunque così che Alex diviene, da carnefice, vittima dello Stato, che ha provocato in lui un tale turbamento da condurlo ad un suicidio che rimane però tentato.
L’INTELLETTO NASCE DAL “SO DI NON SAPERE”
E’ ormai un’idea consolidata il fatto che il trattamento Ludovico si tratti di un esplicito riferimento a Platone. Il filosofo greco, nel VII libro della “Repubblica”, esemplifica in un mito assai suggestivo il percorso che l’anima deve compiere per arrivare alla liberazione. Egli immagina che all’interno di un’oscura caverna, appena illuminata dal bagliore di un fuoco, alcuni uomini siano incatenati, sin dalla nascita, davanti ad una parete: essi vedono unicamente le ombre di alcuni oggetti e statue, trasportate da uomini che procedono alle loro spalle, proiettate sulla parete grazie alla luce del fuoco. Gli uomini crederanno che tali immagini non siano ombre ma oggetti reali e vivranno per sempre nella condizione di coloro che non sanno ma che credono di sapere. Platone ci fa poi immaginare cosa accadrebbe se ad un certo punto, uno degli uomini venisse liberato dalle catene: passata la confusione e lo smarrimento iniziale, l’uomo, ormai fuori dalla caverna, si abituerà a distinguere gli oggetti reali dalle loro ombre. Anche il mito di Platone si apre però ad uno scenario pessimista: l’uomo ormai libero e consapevole, vorrebbe di certo tornare nella caverna per liberare i compagni, ma il problema si porrebbe proprio nel tentativo di convincere gli altri che non gli crederebbero e, anzi, tenterebbero forse di ucciderlo. Il mito di Platone si presta poi ad una lunga speculazione filosofica ed allegorica, tramite la quale, il filosofo, presenta come le tappe del percorso del prigioniero che esce dalla caverna possano essere accostate al percorso per raggiungere la vera conoscenza: dall’immaginazione ad una credenza falsata che viene spodestata dalla ragione che produce poi l’intelletto.
“PENSARE E’ PER GLI STUPIDI MENTRE I CERVELLUTI SI AFFIDANO ALL’ISPIRAZIONE”
E’ chiaro il parallelismo che si viene a creare tra il prigioniero di Platone, costretto a fissare immagini sulla parete, ed Alex DeLarge, altrettanto obbligato a visionare pellicole, e la fine è per ambedue tragica: entrambi sono testimoni di una verità che il mondo non vuole accettare, tanto nel bene quanto nel male. Tornando al caso presentato da Kubrick è doveroso specificare che, per quanto il regista ami e spettacolarizzi la violenza, non la esalta mai ed è anzi chiara la sua condanna; in una delle sue interviste, Kubrick, rispose ad una domanda in cui gli si chiedeva come mai fosse affascinato dai personaggi malvagi dicendo che “i farabutti sono sempre più interessanti della gente perbene, l’interesse dei personaggi demoniaci sta nel fatto che si può facilmente prenderli in giro”.