Quando l’invisibilità non è un superpotere o una proprietà ectoplasmatica, come per Jack Frost, può essere una vera piaga per chi, nella vita, si è mai sentito solo… in mezzo ad altre persone.
“Le cinque leggende” è uno di quei film d’animazione degli ultimi anni che, più che fonti d’intrattenimento per bambini, sono fonti di dilemmi esistenziali per il pubblico adulto. La storia di Jack Frost, lo spiritello dispettoso dell’inverno, ignorato dagli umani e senza un chiaro scopo nella sua esistenza, è un po’ la nostra, quando siamo stati scelti per ultimi nelle squadre di pallamano o quando siamo usciti con la nostra amica e il suo ragazzo autocondannandoci a una serata da terzi incomodo.
Mi escludi, dunque non sono
“Nessuno crede in te, vero? Tu sei invisibile, amico, come se non esistessi…”. La provocazione che il coniglio di Pasqua rivolge a Jack sembra proprio la classica battuta da bulletto della scuola media che vuole rubarti la merenda. Eppure riapre in molti la ferita che li ha lacerati quella volta che si sono sentiti esclusi, ignorati o allontanati. Tutti siamo stati, almeno una volta nella vita, come Jack Frost e ci siamo sentiti inesistenti, quasi incorporei, in mezzo a delle persone che si sono comportate come se non fossimo lì presenti con loro. Questa situazione spiacevole di esclusione da parte di un altro individuo o di un gruppo viene chiamata “ostracismo”, termine coniato da Kipling Williams nel 2007 per la definizione. Situazioni di questo genere sono una minaccia per ben quattro bisogni umani fondamentali. Minacciano l’appartenenza perché vengono recise le connessioni con gli altri all’interno delle situazioni sociali, creando distanza con il resto del gruppo. Minacciano il senso di controllo perché qualsiasi comportamento dell’individuo non potrà cambiare il fatto che gli altri cercheranno di tagliarlo fuori dal gruppo (per dirlo con le parole di Jack, “Ho provato a fare di tutto e nessuno riesce mai a vedermi…”). L’autostima e l’esistenza significativa ne risentono perché essere ignorati porta alla convinzione di non piacere e di non contare niente per gli altri, generando vergogna.
Passami la palla, computer!
Diverse ricerche hanno dimostrato gli effetti negativi dell’ostracismo, e in quasi tutte c’era lo zampino di Williams. In quella del 2002, realizzata con diversi collaboratori, ai partecipanti veniva detto che avrebbero preso parte a una discussione sull’eutanasia della durata di un quarto d’ora, o in presenza di altre due persone (complici degli sperimentatori, condizione faccia a faccia) o su una chat online (programmata dai ricercatori, condizione di contatto mediato dal computer). Un gruppo di partecipanti veniva incluso normalmente nella conversazione (condizione di inclusione), mentre l’altro gruppo di partecipanti, per quanto essi cercassero di intervenire, subiva un trattamento di esclusione, per cui venivano ignorati come se non fossero presenti, sia nella condizione faccia a faccia, sia in chat. Gli effetti di minaccia citati prima si sono verificati nei partecipanti esclusi sia in presenza delle altre due persone che online, quindi anche in assenza di un contatto diretto con gli altri! Ancora più sconvolgenti sono i risultati dell’esperimento del 2006, in collaborazione con Jarvis, in cui i due ricercatori crearono un software, chiamato Cyberball, dove tre figure stilizzate si lanciavano una palla virtuale. A ogni partecipante veniva detto di assumere il ruolo di una delle tre figure e che gli altri due personaggi sarebbero stati attribuiti a due studenti come lui, con i quali poteva interagire passandogli la palla. In realtà, il software era programmato in modo che, dopo alcuni lanci di prova, le due figure escludessero quella del partecipante e iniziassero a passarsi la palla solo tra di loro. Quando gli studenti sottoposti all’esperimento si accorgevano di essere esclusi dal “gioco” si mostravano incredibilmente preoccupati, nonostante non sapessero chi fossero gli altri giocatori e anche quando avevano capito di stare interagendo solo con uno stupido computer! Persino se veniva loro detto che gli altri due personaggi erano membri del Ku Klux Klan si sentivano a disagio (Gonsalkorale e Williams, 2007).
Una tortura per l’anima
Non è che i partecipanti a questi esperimenti fossero eccessivamente permalosi o sensibili. La verità è che l’ostracismo ha degli effetti potentissimi su chiunque, indipendentemente dalle persone o entità che ci escludono. Questo perché, secondo lo studio di Eisenberger, Lieberman e Williams, ci sono dei fattori biologici innati nel nostro cervello che determinano l’importanza per noi, esseri umani, di sentirci apprezzati e parte di un gruppo. Infatti, facendo ricorso alla risonanza magnetica funzionale (fMRI) e utilizzando il software di Cyberball per creare una situazione di esclusione, si è scoperto che l’ostracismo determina l’attivazione di aree cerebrali, come la corteccia cingolata anteriore, coinvolte quando un individuo subisce una dolore fisico. Come mai? Forse questa risposta così dolorosa all’ostracismo possiede un valore adattivo, dato che l’evoluzione ci ha fatto capire quanto il gruppo sia importante per la specie umana, tanto che il nostro bisogno di affiliazione, di relazionarsi con gli altri, è diventato innato. Per quanto la sensazione dolora attivata dall’ostracismo ci consenta di far fronte a una possibile espulsione dal gruppo e quindi di intervenire perché non accada, la reazione che suscita è decisamente esagerata e più che altro un fattore di stress per le persone.
Questo ci insegna che fregarsene degli haters non è così facile, dopotutto, e che trattare le persone con distacco, evitandole e ignorandole, può ferire quanto una pugnalata e ghiacciare il cuore come neanche Jack Frost saprebbe fare.