Alto mare aperto
“ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto”
E ancora
“Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza”
Non credo servano specificazioni per questa coppia di terzine, forse due delle più famose, ma, a scanso di equivoci: ci troviamo nell’Inferno dantesco, XXVI canto, in compagnia di Dante e Ulisse (o Odisseo se preferite). È uno dei canti cardine della Commedia, per posizione, argomento, sintassi e lessico – pensavate che la vostra proff ve lo facesse imparare a memoria per cattiveria? – forse non vi sbagliavate però è sicuramente un cult della Commedia e della letteratura italiana.
Ma perché è tanto importante?
Per la sua interpretazione di uno dei miti classici più famosi al mondo, il viaggio di Ulisse, il suo nostos, il suo ritorno verso casa che passa, però, per la scoperta mossa da curiosità del mondo sconosciuto, non ancora battuto dall’uomo. Ulisse e, con lui tutta l’umanità, sente il bisogno fortissimo di arrivare laddove nessun altro si era mai spinto, oltre le famose Colonne d’Ercole, oltre il mondo conosciuto, oltre il tracciato. Ed è quello che fece e che raccontò a Dante la sua anima. Ulisse rappresenta un sentimento necessario per l’essere umano quello della conoscenza per il piacere e la passione del sapere.
Odissea contemporanea
Sentimento a tal punto condiviso e privo di barriere temporali da muovere le gesta di un altro eroe, che incarna un mito contemporaneo: Seydou, migrante senegalese di cui Matteo Garrone ricostruisce l’odissea nel film Io Capitano.
Seydou, come Ulisse, intraprende un viaggio prima per terra e poi per mare, cercando di raggiungere una terra promessa, l’Europa, dove potrà ingenuamente realizzare alcuni dei suoi sogni. È poco più di un bambino, ha 16 anni, e con lui c’è suo cugino Moussa: provengono da famiglie tratteggiate con normalità, felicità e sorrisi. La mamma di Seydou è presente, attenta e sa cosa potrebbe capitare a figlio e nipote se decidessero di intraprendere un viaggio del genere. Ma i due protagonisti sono ancora giovani e mossi dalla stessa insaziabile curiosità di Ulisse e della sua compagna picciola.
Ciò che li aspetta è un viaggio lungo, pieno di problemi, sofferenza, cadaveri e lacrime: solo la speranza di qualcosa che potrebbe esserci in Europa, solo l’illusione di vivere in modo differente, solo la voglia di far combaciare le loro aspettative con la realtà, li spinge a continuare.
Folle volo
Ed è proprio questa necessità interna di voler soddisfare un’idea mentale con ciò che nessuno sa che forma avrà che accomuna i due eroi, i due viaggi mitici e i secoli di storia che li separano. Ulisse racconta a Dante utilizzando l’aggettivo folle da accompagnare al volo ed è proprio quello che fu: un’impresa che nasce da chi vive non accontentandosi di ciò che si sa già, di quello che è già scritto, delle strade percorse: entrambi i nostri protagonisti di questo folle viaggio pagheranno il prezzo di scelte tanto azzardate: sopra Ulisse e i suoi compagni il mare si richiuderà, mentre Seydou dovrà superare diverse prove per raggiungere l’oggetto del desiderio: le coste siciliane, l’Europa.
Come Ulisse, il sedicenne è capitano del barcone con il quale lui e i suoi compagni di viaggio tenteranno di coprire le miglia di Mar Mediterraneo tra l’Africa e l’Italia. E come Ulisse Seydou parla come un capitano, promette loro che nessuno morirà non fin quando ci sarà lui, un ragazzino di 16 anni, pieno di ansia, senso di responsabilità troppo grosso per spalle così giovani e paura:
“Li miei compagni fec’io sì aguti,
con questa orazion picciola, al cammino,
che a pena poscia li avrei ritenuti;”