Negli Stati Uniti proseguono le proteste per la sentenza della Corte Suprema che ha annullato il diritto all’aborto.
La storica sentenza Roe v. Wade, grazie alla quale nel 1973 era stato legalizzato l’aborto negli Usa, è stata abolita. Adesso i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia. Texas e Missouri si sono già pronunciati in merito, rendendo l’aborto illegale. Analizziamo la delicata questione da un punto di vista bioetico.
Il dilemma morale dell’aborto
La bioetica è una disciplina, nata negli anni settanta, che si occupa dell’analisi razionale dei problemi morali emergenti nell’ambito delle scienze biomediche. Questa branca dell’etica si propone di definire criteri e limiti di leicità alla pratica medica e alla ricerca scientifica, affinché il progresso avvenga nel rispetto della persona e della sua dignità.
Tra i campi di interesse della bioetica rientra anche la questione aborto. Il dibattito è tendenzialmente polarizzato in due direzioni opposte: la tutela dei diritti della donna e la tutela di quelli dell’embrione. Alla base, vi è una diversa concezione del feto: essere umano già in essere o meno? Dalla risposta a questa domanda prendono forma diverse posizioni sulla questione aborto che riflettono la profonda divisione che sta caratterizzando l’America già da tempo. Vediamone alcune.
L’etica della cura: “pro-choice”
Il femminismo ha fornito importanti contributi al dibattito sull’aborto. Uno di questi riguarda l’etica della cura, secondo cui è impossibile parlare astrattamente del feto e prescindendo dalla donna. Questo perchè tra i due esiste una relazione profondamente carnale ed, essendo il feto legato alla donna in modo imprescindibile, quest’ultima è l’unica a poterne decidere il valore e il destino. La donna, confrontandosi con la sua condizione sociale, economica e psicofisica, deve avere il diritto di poter decidere se portare avanti o meno questa relazione. L’etica della cura, dunque, è completamente a favorevole all’aborto e alla sua depenalizzazione.
In rappresentanza di questo punto di vista, migliaia di donne stanno scendendo in piazza, in molte città americane, innalzando il cartello “My body, my choice”. E’ il caso di New York, Chicago, San Francisco e Seattle, dove le manifestazioni stanno diventando sempre più numerose.
L’etica religiosa: “pro-life”
Dall’altro lato della barricata troviamo donne che, in risposta al “my body, my choice”, innalzano un cartello con su scritto “abortion is a murder”. Questa posizione opposta ha alla base la concezione secondo cui l’embrione è considerato una persona fin dal concepimento. Ragion per cui l’aborto è considerato un vero e proprio omicidio. Secondo questa linea di pensiero, dunque, il feto è un essere umano da difendere e da preservare, come tutti gli altri.
Secondo molti esponenti della corrente pro-life, non è solo la religione a dare supporto a tale concezione del feto ma anche la scienza. Questo perchè si è dimostrato che la vita comincia dal concepimento, dato che l’embrione è già un essere separato dalla madre, avente il proprio DNA. Questa concezione trova appoggio da parte di una grossa fetta della popolazione americana: nel South Dakota e in Texas è già entrato in vigore il divieto di aborto.
E se la verità si trovasse nella sfumatura?
Quella sull’aborto è una questione morale ancora aperta, dunque. E come tutte le questioni morali non è di facile soluzione. Ma esiste un’alternativa al pensiero dicotomico pro-life/pro-choice? Luciano Sesta, docente di Etica e Filosofia della medicina, risponde così: “Purtroppo il linguaggio dei diritti e dei doveri, enfatizzato dalle prospettive pro-choice e pro-life, ha l’effetto di concentrare unilateralmente l’attenzione ora sulla figura della donna, ora su quella del feto, mettendo di fatto l’una contro l’altro. La donna non è un semplice “contenitore fetale”, né il nascituro può essere ridotto a una mera “appendice” del corpo materno. Ciò che abbiamo concretamente di fronte è una donna incinta. E cioè una donna che deve essere aiutata, anche da chi l’ha resa madre, se è possibile, a fare una scelta giusta, perchè le principali conseguenze di tale scelta è la donna stessa a doverle scontare”.
L’importanza del caso specifico
Sesta pone l’attenzione su una cosa molto giusta: che ruolo ha, in tutto questo, il padre? Se lo si esclude completamente dalla questione gli si nega anche il diritto di poter essere di supporto alla donna in una scelta non facile. Perché se è vero che l’ultima parola spetta a chi “ospita” il feto, è anche vero che chi ha contribuito alla sua sedimentazione debba avere quantomeno il diritto di esprimere la propria opinione. Sono giorni che vedo sui social uno schemino che riassume la delicata questione in questo modo: “Hai un utero? Puoi dire la tua sull’aborto. Non hai un utero? Stai zitto”. Ma è davvero così semplicistico e totalitario il dilemma? E’ utile escludere completamente il mondo maschile dalla questione? Non ci stiamo dimenticando, forse, della singolarità dei casi? Ci si divide in barricate, si tende ad imporsi sul pensiero degli altri attraverso dicotomie che non lasciano alcuno spazio al confronto, al dialogo. Il risultato? A risentire di questa dicotomia è anche la legislazione che oscilla da un lato all’altro, ciclicamente e senza una definitiva risoluzione. Ci si fa la guerra a colpi di “pensiero astratto” e a farne le spese, come al solito, sono sempre le persone che si ritrovano a vivere concretamente il dramma.
A questo punto sarebbe opportuno chiedersi se non dovremmo essere noi, in primis, a iniziare a comportarci da esseri umani.