Wittgenstein prova a spiegare il silenzio a parole, Mezzosangue lo descrive come una collina, nell’atmosfera cupa di Silent Hill.
Una città in mezzo tra il concreto e l’astratto, tra i brutti sogni di chi smarrisce la via e la nebbia fitta che non permette di ritrovare il percorso. “Benvenuto a Silent Hill“. Per i fautori del rap non sarà complicato associare questa frase ad una traccia cult di una colonna dell’hip hop italiano: Luca Ferrazzi, in arte Mezzosangue.
Queste barre, accompagnate da una produzione musicale molto cupa, trascinano l’ascoltatore in un’atmosfera conscious molto profonda, caratteristica fondamentale dell’intero album di cui fa parte Silent Hill, ovvero Soul of a Supertramp. Un album alla ricerca dell’io interiore, un viaggio tra la realtà del nostro contesto sociale e le critiche alla morale e alla religione, tipiche dell’Anticristo di Nietzsche.
La collina silenziosa
Il titolo riprende il celebre videogioco e nel brano l’artista è riuscito perfettamente a riprenderne l’atmosfera. Il gioco segue la storia di Harry Mason, protagonista, alla disperata ricerca della propria figlia adottiva per le strade della mostruosa città statunitense Silent Hill. Nella traccia di Mezzosangue invece troviamo quest’ultimo alle prese con la fuga dalla “collina silenziosa“: il luogo dove tutti ritroviamo noi stessi e il nostro silenzio. Ma è anche il posto dove albergano ansie, paure, tormenti, angosce. Una collina dalla quale tutti vogliono scappare per chiudersi al di fuori, ma il vero nemico finale risiede proprio lì, assieme al nostro silenzio.
Siamo polvere in volo nel vento
Tempo in carne ma schiavi del tempo
Abituati a farci scudi di paura
È come farsi un’armatura con la vergine di ferro
Siamo rumore in cerca di un silenzio eterno
L’essere umano è schiavo del divenire, pronto a difendersi dalla paura. Per farlo deve chiudersi dentro una vergine di Norimberga (noto strumento di tortura medievale) che non porterà a nient’altro che rumore, quando invece è il silenzio a poter descrivere ogni cosa, lì dove le parole non arrivano.
La filosofia del silenzio
Parlare del silenzio è di per sé un paradosso, ma forse in certi momenti la parola alla quale più una persona aspira è proprio il silenzio. Il filosofo austriaco Wittgenstein chiude il suo “Tractatus logico-philosophicus” con la celebre proposizione:
Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere
Ciò su cui si deve tacere, secondo Wittgenstein, non è affatto il superfluo, l’ininfluente, l’accessorio: il silenzio lo si deve, semmai, proprio a quella sfera dell’esistenza che è quella che per noi è forse la più essenziale, certamente quella a cui teniamo di più; ovvero, ad esempio, alle questioni etiche relative al bene e al male, al giusto e all’ingiusto, alle questioni estetiche, relative alla bellezza, o, in generale, all’esperienza di senso che è legata alla dimensione dell’opera d’arte, oppure, ancora, al mondo del sacro e della fede. Di tutto questo, secondo Wittgenstein, non si può fare davvero parola, in quanto queste esperienze in qualche modo sfuggono alla logica del discorso. Questo tipo di esperienze appartengono al ‘mistico’, ovvero possono essere mostrate, indicate, vissute, ma non imbrigliate dentro la grammatica che è condizione di senso del nostro discorrere.
Però le cose a cui più teniamo sono anche quelle che più temiamo, da cui vorremmo fuggire per non provare dispiacere. Se Wittgenstein afferma di dover tenere nascoste quelle cose che più ci riguardano, Mezzosangue ci dice di tenercele ben strette e non chiuderle al di fuori del mondo esterno, che viene spesso confuso con il nostro io interiore.
Gianmarco Marino