Il gioco del rocchetto: il simbolo e lo sviluppo infantile

Nello scritto “Al di là del principio di piacere” Sigmund Freud descrive il comportamento di suo nipote Ernst durante una fase di gioco. Questo bambino, all’età di 18 mesi, aveva tra i suoi giochi preferiti un rocchetto – un piccolo telaio di legno dove avvolgere fili di tessuto – che lanciava oltre la sponda del suo letto, facendolo scomparire; successivamente, tirandolo a sé, il rocchetto ricompariva, accompagnato da espressioni di appagamento e felicità da parte del bambino.

Secondo il medico austriaco, il gioco veniva ripetuto con grande frequenza a causa della funzione che svolgeva per il bambino. Questa funzione viene associata alla coazione a ripetere. Con questa formulazione Freud intende la tendenza inconsapevole a riproporre, tramite gesti e azioni quotidiane, una sorta di schema, script o modello presente nel mondo interno del bambino, che in passato avrebbe generato una sofferenza.

Una sofferenza di cui talvolta non si ha più memoria, in quanto troppo precoce per poter essere in qualche modo memorizzata, processata, integrata nella nostra esperienza. O troppo disturbante, spaventosa e impossibile da accettare, in alcuni casi. La sofferenza dimenticata genera quindi un conflitto, che costringe il bambino – e anche l’adulto – a ripetere gli stessi modelli e la stessa sofferenza: una “ripetizione del rimosso” – l’evento in sé e l’emozione ad esso collegata – “come esperienza attuale, anziché ricordarlo come un brano del passato”.

Come si collega la coazione a ripetere nel nostro caso, il gioco del rocchetto? A questo punto è necessaria una precisazione: durante il lancio del rocchetto, il bambino emetteva il fonema “o-o-o”, ripetendolo. Poi richiamava il rocchetto e, una volta ricomparso, lo salutava con un allegro “a-a-a”. Sia Freud che la madre del bambino collegarono, dopo qualche tempo, la pronuncia di queste vocali alle parole “fort” e “da”, tradotte dal tedesco in “via” e “qui”.

L’interpretazione fornita da Freud è che attraverso questo gioco il bambino sia riuscito ad accedere a una rappresentazione simbolica della relazione con la madre. La sorella di Freud era infatti solita lasciare il bambino alle cure di altre persone per qualche ora, durante le quali si assentava per svolgere le normali attività quotidiane. Nonostante il suo buon temperamento, è difficile ipotizzare che per un bambino risulti felice o piacevole separarsi dalla madre, specialmente in una fase così precoce del suo sviluppo affettivo. Eppure, è tra le pieghe di ciò che provoca frustrazione, nello spazio tra il bisogno da appagare nell’immediato e un suo posticipo, che nascono soluzioni imprevedibili e creative.

La ripetizione del lancio e del recupero era infatti una simulazione dell’abbandono della madre – “via” – e del suo ritorno – “qui” -, con la conseguente ripetizione della sofferenza della perdita, ma anche del piacere del ricongiungimento. La funzione del gioco è dunque catartica, un’esperienza che permette al bambino di ripercorrere il suo dolore, senza accedervi direttamente, nel tentativo di alleggerirlo e diventarne protagonista. La possibilità di sperimentarsi come colui il quale decide delle sorti dell’Oggetto – la madre – permette una ripetizione attiva in una fase in cui le verbalizzazioni e la possibilità di fare esperienza sono ancora estremamente immature.

Ciò implica, seguendo quest’interpretazione, la possibilità di accedere a una dimensione in cui il gioco rappresenta simbolicamente alcuni aspetti della realtà – il cosiddetto gioco di finzione – che vengono agiti, messi in pratica e compiuti fisicamente al fine di assoggettarli al proprio volere, in una dinamica evolutiva fondamentale per ciascun cucciolo dell’uomo.

A un’analisi più approfondita, il gioco del rocchetto ha permesso al piccolo Ernst di essere risarcito del danno della rinuncia a una soddisfazione immediata del suo bisogno – la presenza della madre – garantendo un passaggio evolutivo personale, creativo e adattivo. Il bambino aveva imparato a tollerare la frustrazione di essere lasciato solo e dunque di non poter godere del legame fusionale con la madre, ma senza la necessità di dimenticarsi di lei, ovvero mantenendo vivo e attivo il legame con l’Oggetto.

Cosa significa mantenere vivo il legame anche nell’assenza? Lacan (1962) afferma che “la sicurezza della presenza è possibilità dell’assenza, dell’Altro e all’Altro”. In questa frase vi sono due punti da chiarire. V’è non solo la possibilità di trarre godimento dall’essere con l’altro, ma anche il tentativo di tollerare la sofferenza della perdita: mantenere la serenità di chi sa che non perderà il legame, nonostante la separazione dall’altro. In aggiunta, non solo la sicurezza nell’assenza consente questa qualità affettiva, ma permette a noi stessi di prendere spazio ed essere assenti all’altro in quanto, potenzialmente, possiamo interagire con individui che tollerano la nostra assenza, pur non dimenticandoci.

Resta però un punto, a mio avviso, che ancora non risulta chiaro: perché inscenare la separazione – un’esperienza dolorosa – insieme al ricongiungimento? Perché Ernst non si limita ad agire il ritrovamento della presenza materna, al fine di appagare il proprio desiderio? È qui che emerge in tutta chiarezza la coazione a ripetere, il filo sottile che lega i comportamenti che continuano a riproporre una sofferenza passata. Il motivo risiede nel fatto che nell’agire la sofferenza risiederebbe la possibilità di elaborarla, di attribuirle un significato e, infine, superarla. È questo il motivo che spinge ad agire simbolicamente l’atto doloroso: da un lato, permettersi di eliminare quel dolore e, dall’altro, concedersi il risarcimento di un ritrovarsi immaginario e immaginato.

L’uomo, sin dalla tenera età, ha la possibilità di essere il soggetto agente della sua vita e non solo colui il quale subisce le ferite dell’altro. Quanto ampie siano le possibilità di essere in prima persone nelle proprie cose, dipende molto dal tipo di ferite che il bambino ha subito. Maltrattamenti, abusi, legami ambigui e ambivalenti, trascuratezza e iperaccudimento generano traiettorie evolutive differenti. I fattori che influenzano lo sviluppo affettivo, cognitivo e sociale del bambino sono molteplici e la loro interdipendenza è stata da tempo dimostrata. In questi fattori, sottolineerei il fondamentale apporto dato dalla dimensione ludica, in cui trasformare e trasformarsi, accedendo finalmente a una dimensione della realtà in cui essere protagonisti e sentirsi presenti e incarnati nella propria vita.

Fiorenzo Dolci