L’amore per le buone pietanze è amore, da sempre, sin dall’anno 0. I gusti certamente cambiano, ma questa passione è rimasta inalterata dall’Urbe sino al ventunesimo secolo.
Oggi, come non mai, la cucina e il cibo hanno un ruolo sociale distintivo, poiché ciò che mangiamo ci va a definire in un determinato modo (dibattito tutt’altro che agile da affrontare) e anche primario, data la grande attenzione riservata all’alimentazione.
“I fà soeo da magnare in tv”
Espressività e incisività: queste le caratteristiche vitali di ogni lingua dialettale( per chi se lo fosse perso, ne abbiamo parlato in un’altra puntata) e il titoletto di questo primo paragrafo si esprime ficcante. La scelta di introdurre l’argomento in tal modo si deve alla citazione di un’anziana signora veneta che, notando come oramai in televisione dominino incontrastati i programmi di cucina, ricette, ristoranti e tutto ciò che concerne il godimento conviviale, ha esclamato: “I fa soeo da magnare in tv!”, che tradotto significa “Fanno solo da mangiare in tv”. Analisi mediatica azzeccata quella dell’arguta ottantenne, epigrammatica quanto veritiera. A qualsiasi ora del dì ci si imbatte in rinomati cuochi “giudici” e sfide a colpi di pentole d’ogni sorta, il cui estesissimo novero pare detenere il monopolio assoluto. Tra gli chef d’altissimo livello che si sono reinventati anche uomini di spettacolo spicca Alessandro Borghese con il suo “Quattro ristoranti”, programma dall’incredibile successo del 2015 tutt’ora in onda. Vietato poi non citare “Masterchef”, pioniere di questo nuovo ambito d’intrattenimento che conta ben nove edizioni in Italia e varie versioni in Europa e non solo. Di programmi simili se ne potrebbero elencare a bizzeffe ma questo compito è prerogativa di Televideo (sì, esiste ancora!). Interessante dal punto di vista social-antropologico è far emergere il loro carattere epidemico, senza alcuna accezione negativa(forse), tipico di questa nuova onda anomala di tortelli e tiramisù vari capace di balzar fuori dallo schermo e tramutarsi in riviste, libri, allargando così il contagio con efficacia tentacolare. Oggi disponiamo di una quantità spropositata di manuali fittissimi, contenenti persino la ricetta per imparare a cucinare una frittata. Un tempo, però, se si voleva preparare un bel cinghiale alla brace… che si faceva?
Uno sguardo all’antica Roma
Nei tempi antichi possiamo scovare il progenitore degli chef moderni, un personaggio definibile “triadico” date le diverse tradizioni a noi pervenute sul suo conto. Le fonti, frammentarie e aneddotiche, ci tramandano di tre possibili “Apici” aventi tutti in comune l’amore per lo sfarzo, tratto caratteristico che lo porterà all’identificazione stessa del cognomen Apicius. Il più attestato storicamente è Marco Gavio Apicio, controverso cuoco romano vissuto a cavallo dell’anno 0, organizzatore seriale di pantagruelici banchetti ospitanti, tra i vari, eminenti profili della società antica. Al di là della pittoresca personalità, condita da simpatiche e “pepate” storielle biografiche, da sottolineare è la sua volontà di codificare il costume alimentare romano attraverso il “De re coquinaria”, un trattato di dieci libri contenente quasi cinquecento ricette. Il fine pratico e consultativo dell’opera paga la sua scarsa letterarietà, data anche la pochezza lessicale dell’autore di cui ci incuriosiscono le pietanze proposte, spesso stravaganti e ai confini dell’edibile. Se con la recente “aria fritta” dello stellato Nicola Dinato si pensava d’aver raggiunto l’apice della bizzarria, si riservi sine dubio una menzione alle lingue di usignoli e pavoni, calli di dromedario, intingoli di creste di volatili ancora vivi e vegeti e compagnia: non si dica “Che schifo” bensì… “De gustibus”! Nella decade compositiva riscontriamo una suddivisione tematica ragionata, dove ogni capitolo risponde ad una determinata tecnica di cottura, un ingrediente, un ambito culinario ecc… delineando così un corpus consistente e specifico in grado di fornirci un ampio panorama sulle tavole imbandite dei nostri avi latini.
“Il cibo è sempre il cibo”
Che si tratti di lasagne al tartufo nero, caviale di storione beluga o anche solo di un sinceramente unto e poetico “paninazzo”, il cibo è sempre, sempre, sempre motivo di convivialità, di amicizia, di risate che ben si accompagnano ad un calice colmo di succo d’uva. Per noi italiani, in particolare, si tratta di cultura, di religione, ed è fondamentale mantenere alto e sventolante il vessillo della buona cucina per la quale, con tutto il massimo rispetto per i nostri simili d’altri suoli, non siamo secondi a nessuno. Detto ciò… “Edite”!