Percorso e parole dell’eros accomunano il Cantico dei Cantici e Orgasmo di Calcutta
Sembra quasi un futile esercizio retorico, o addirittura una bestemmia, mettere in relazione il libro biblico del Cantico dei Cantici a Orgasmo, canzone di Calcutta pubblicata il 15 dicembre 2017. Eppure, osservando bene, sono almeno due i livelli in cui questi testi entrano in contatto: la “sfacciataggine” del lessico e il percorso di presenza-fuga-reincontro dei due innamorati.
Cantico dei Cantici, che è di Salomone
Con queste parole inizia lo shìr hasshirìm, il Canto Sublime, il più bel Cantico, ossia il libro biblico che celebra l’amore tra un amato e un’amata. Viene da chiedersi cosa ci faccia nella Bibbia un libro che racconta un amore così passionale e dove il nome di Dio non fa mai la sua comparsa. Sembra quasi una scheggia testuale conficcata in un corpo estraneo, e non c’è da stupirsi nel considerare quante ipotesi – spesso divergenti – siano state fatte per spiegare la sua collocazione nell’Antico Testamento: si va da libretto per riti nuziali mesopotamici ad allegoria dell’amore tra Cristo e la Chiesa, da raccolta di canti d’amore a imitazione di poesie egiziane.
Anche sulla divisione interna del testo sono state avanzate molte congetture: la tradizione ci ha riportato otto capitoli, ma all’interno di essi si possono riconoscere un prologo, dieci poemi (che inscenano momenti diversi della storia d’amore), un epilogo e un paio di appendici.
Veniamo ai protagonisti: l’amato è chiamato Re, ma anche Salomone, ossia “il pacifico”. L’amata invece è la Sulammita, “la pacificata” oppure “colei che procura pace”. Forse viene da Sulam, un piccolo paesino di campagna; forse il suo nome è stato creato a tavolino partendo da quello di Salomone; o forse, ed è la proposta più considerata, la pace, shalom, abita le loro esistenze ora che si sono trovati.
Oltre a loro, parla anche un numero variabile di voci, divise in vari gruppi: dame dell’harem della sposa, i pastori di Sulam, i fratelli della Sulammita. Costante in tutti i dialoghi rimane però un’ elevata tensione erotica. Un esempio? “Che lui mi baci con i baci della sua bocca, perché le sue dolcezze sono migliori del vino” recita 1,2 mentre 8,14 “Penetra, mio amato, e sii simile a un daino, o a un giovane cerbiatto sulle colline dei balsami”. Il Cantico inizia e finisce durante un amplesso.
Tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande
Una considerazione del genere è in effetti eccessiva per il Cantico, ma non per Calcutta, che non ha nessun problema nel parlare esplicitamente fin dal titolo, Orgasmo. Basta leggere rapidamente il testo per accorgersi della nudità intrinseca alle parole: “E se mi metto davvero a nudo, dici che ho sempre voglia di scopare”, oppure “Mi hai chiesto un orgasmo profondo”. Limitiamoci ora a tenere in mente questa sfacciataggine: non è un semplice stratagemma per scandalizzare chi ascolta, ma ha un suo significato più profondo, come vedremo nel prossimo paragrafo.
L’audacia lessicale di questo testo indie si ritrova, mutatis mutandis, anche nel Cantico: per descrivere i corpi degli amanti, si ricorre a immagini naturalistiche. “I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella”. “Come un giglio fra i rovi, così l’amica mia tra le ragazze: come un melo tra gli alberi del bosco, così l’amico mio tra i giovani”. Forse non ci sembra nulla di così sconvolgente, ma occorre ricordare che siamo nella Bibbia – dove il rapporto sessuale è di norma pudicamente espresso tramite il verbo conoscere – nel IV sec. a.C, ossia lo stesso periodo dei poeti alessandrini. Così l’amata, che in 1,5 si definisce “bruna, ma bella” diventerà “piccola e nera” in Filodemo di Gadara, e a questo paradigma di sensualità mediorientale cede anche Teocrito in Idilli X, 26-27: “Incantevole Bombica, tutti ti chiamano Sira, ti dicono rinsecchita, bruciata dal sole: io invece color del miele. Anche la viola e il giacinto screziato sono scuri, ma nelle ghirlande per primi sono scelti.”
Rimane una sostanziale differenza: quella che per gli alessandrini era una evidente messa in scena dell’eros, priva di pudore, nel Cantico rimane avvolta, sfumata in una una nuvola di profumata sensualità. Scrive Roberto Calasso: “è come se Atene e Gerusalemme si incontrassero in una camera da letto”.
Il percorso dell’amore: nascita, fuga, nuovo incontro.
L’altra analogia tra il Cantico e Orgasmo è a mio parere giocata sul moto dinamico che accomuna amato e amata. Consideriamo il testo di Calcutta: la genesi dell’amore non viene descritta, ma lasciata sullo sfondo, come un presupposto inutile da specificare. Questo amore però sta vivendo un periodo di crisi: lui è appena tornato da New York e continua a provare attrazione solo per lei (tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande); lei, nonostante abbia chiesto un orgasmo profondo, l’apice della loro relazione sessuale, ora gli volta le spalle.
La sparizione dell’amore si osserva anche nel Cantico, più precisamente in 5,2. Nella notte, l’amata crede di aver sentito il suo amato bussare alla porta. “Ma l’amato mio se n’era andato, era scomparso. Io venni meno, per la sua scomparsa”. Lei vaga nell’oscurità, cercandolo. “Ritorna, amato mio”. Le guardie delle mura la scambiano per una vagabonda e la percuotono, strappandole il mantello. Chiede allora aiuto al coro delle donna per cercarlo, e finalmente dopo tanto errare lo ritrova, perché “io sono del mio amato e il mio amato è mio; egli pascola tra i gigli.” Questa sparizione dell’amore si conclude con un lieto fine.
Resta da vedere cosa accade in Calcutta: dopo l’allontanamento, (È un sacco che non te la prendi, è un sacco che non mi offendi e che non sputi allo specchio per lavarti la faccia) i due si ritrovano e cambiano il punto di vista. La domanda non verte più sull’orgasmo profondo, ma teneramente lui chiede “Come stai?”. Emerge una sorta di nostalgia per tutto quello che erano prima, nonostante tutte le incomprensioni non risolte: lui sa che lei era il suo porto sicuro, dove perdersi quando fa buio mi fa paura, e malinconicamente ricorda tutto ciò.
Calcutta non ci racconta se i due si reicontreranno o no: forse, come la Sulammita, anche lei, passata la crisi, potrà dire “L’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata: i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora si fa sentire nella nostra campagna: il mio amato è mio, e io sono sua”.