In occasione dell’anniversario della nascita di Verga, vediamo quanto sono ancora attuali le sue idee.
Giovanni Verga (2 settembre 1840-27 gennaio 1922) è considerato -insieme a Luigi Capuana- il maggiore esponente del verismo. La raffigurazione del vero, la tendenza all’oggettività e all’impersonalità, l’approccio scientifico alla letteratura, il pessimismo morale, la visione fatalistica e la sfiducia nel progresso incarnano il fulcro delle sue opere a sfondo sociale.
Dal naturalismo al verismo
Le influenze del naturalismo francese e del positivismo (e, quindi, della fiducia incondizionata nella scienza) concorrono alla nascita del verismo italiano.
In Francia è Émile Zola, in particolare, a tradurre le idee positiviste in letteratura, respingendo l’idealizzazione romantica della società in nome di una descrizione obiettiva che ne mostri le luci e le ombre. Lo scrittore naturalista è un osservatore, una sorta di narratore-scienziato che non partecipa emotivamente alle vicende descritte.
In Italia gli influssi del naturalismo emergono fin dagli anni ’70 dell’Ottocento grazie all’interesse e alla mediazione di Luigi Capuana che attraverso le sue recensioni contribuisce a far conoscere le opere francesi in tutta la penisola, tanto da essere considerato il vero teorico del movimento.
Nasce, così, una letteratura vera e sociale di argomento contemporaneo, che si pone come obiettivo quello di rappresentare la realtà in maniera oggettiva, attraverso descrizioni precise e imparziali; l’attenzione è rivolta all’ambiente e alle condizioni socio-economiche in cui (soprav-)vivono i protagonisti.
Il verismo nasce nel 1878 con la pubblicazione della famosissima novella verghiana “Rosso Malpelo” e si conclude con “Mastro-don Gesualdo” (1889), lo stesso anno in cui D’Annunzio pubblica “Il piacere”, che apre la stagione del romanzo simbolista e decadente.
La produzione verghiana
Dopo essersi dedicato alla stesura di romanzi storici (come “Amore e Patria”), romanzi e novelle di studio dell’alta società in cui -con toni melodrammatici- analizza e mette a nudo le falle, le bugie e le ipocrisie degli ambienti borghesi (“Tigre reale”, “Eva”, “Eros”), nel 1874 Verga si avvicina alla poetica verista con la pubblicazione di “Nedda” (1874).
Essa segna il passaggio dal pre-verismo alla fase verista vera e propria: è la fine della prima maniera, l’inizio del fermento di nuove idee; “Nedda” è la novella in cui Verga, per la prima volta, descrive il mondo degli umili e non quello borghese.
Seguono due raccolte di novelle: “Vita dei campi” (1880) e “Novelle rusticane” (1883), ambientate nel contesto catanese e aventi come protagonisti uomini delle classi subalterne. Verga progetta, poi, cinque romanzi (che vanno a costituire il “Ciclo dei vinti“), ma ne scrive solo due: “I Malavoglia” e “Mastro-don Gesualdo”. Abbozza “La duchessa di Leyra”, che resta incompiuto, e continua a scrivere novelle fino al 1903 quando -dopo la rappresentazione del suo ultimo dramma “Dal tuo al mio”- decide di abbandonare la scrittura e si dedica alla cura delle proprietà agricole.
Il progresso in Verga
È a partire dal 1878 che si può parlare di svolta verista in senso stretto: Verga si ispira alle novità introdotte dal naturalismo francese ed elabora un nuovo modus scribendi con la rinuncia al narratore onnisciente e la proposta del narratore anonimo popolare. Vi sono l’eclissi e la regressione del narratore, c’è il metodo dell’osservazione scientifica e dell’impersonalità, quindi l’assenza del coinvolgimento emotivo e di qualsivoglia giudizio.
A differenza, però, del naturalismo di Zolà, in Verga dominano il pessimismo materialistico e la sfiducia nel progresso: la modernizzazione non va mitizzata e non ha soltanto lati positivi, anche se non può essere fermata o ostacolata.
Nel “Ciclo dei vinti” Verga ha intenzione di tracciare un quadro della stratificazione della società italiana, passando in rassegna tutte le classi sociali, partendo da quelle più umili. Alla concezione pessimistica e materialistica, si aggiunge quella darwiniana: alla base vi sono la legge del più forte e la lotta per la sopravvivenza.
L’autore restituisce una visione del mondo decisamente pessimistica e crudele, riprendendo la brutale concezione di Hobbes dell’homo homini lupus e intrecciandola con quella positivista di Darwin: solo i più forti, i più prepotenti, i più furbi vanno avanti.
Oggetto della narrazione verghiana, però, non sono i forti, non sono i vincitori, ma i vinti, coloro che vengono schiacciati e calpestati dai meccanismi dello sviluppo moderno, travolti dalla “fiumana del progresso“. Verga si interessa:
Ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno
sorpassati domani.(Prefazione, I Malavoglia).
L’autore insiste sugli aspetti negativi dell’età moderna, l’avidità, i vizi, l’interesse per la roba, l’accanita lotta per l’esistenza e per il benessere che colpisce tutte le classi sociali:
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione.
(Prefazione, I Malavoglia).