Siamo davvero sicuri che le parole buone o cattive siano tali a priori? Scopriamolo con i fabliaux medievali e gli Articolo 31.
Scopriamo il valore delle parolacce e come queste possono aiutarci a ottenere i nostri scopi.
Le parolacce
“Non si dicono le parolacce!” ci dicevano i nostri genitori quando eravamo piccoli, ma siamo davvero sicuri che esistano parole buone e parole cattive? Certo, sì, il suffisso “acce” è un suffisso dispregiativo, che ci lascia subito intendere che ci stiamo riferendo a qualcosa di sbagliato, ma le parole nascono come buone o cattive a priori?
È banale e scontato dire di no, le parole sono assolutamente neutre e l’unica cosa che ci porta a classificarle come “buone” o “cattive” è la percezione che noi ne abbiamo, come spiega Ragione ad Amante nel Roman de la Rose di Jean de Meung, quando, al pronunciare la parola “coilles” (coglioni) di Ragione, Amante la ammonisce dicendo: “E non vi ritengo cortese, che mi avete menzionato i coglioni: che non stanno per niente bene in bocca a una ragazza ben educata”, e Ragione si difende prontamente rispondendo: “Se io, quando ho messo nome alle cose che tu tanto disprezzi, avessi chiamato reliquie i coglioni, e coglioni le reliquie, tu, che adesso mi rimproveri, avresti considerato brutta e volgare la parola reliquie.”
La signorina che non poteva sentir parlare di scopare
Il fabliau anonimo conosciuto come “La signorina che non poteva sentir parlare di scopare” tratta di un tema largamente diffuso: quello del giovane scaltro che inganna la fanciulla innocente e sprovveduta riuscendo a portarsela a letto senza troppa fatica; ció che ci interessa è peró il gioco di parole attraverso cui Davidino, il protagonista maschile della storia, riesce a ingannare l’ingenua fanciulla, di cui non sappiamo il nome e che chiameremo arbitrariamente Gina.
La storia ci racconta di Gina, una ragazza antipatica e altezzosa che odiava le parolacce, motivo per cui in casa sua non c’erano servi, perchè chiunque dicesse una parolaccia, veniva immediatamente cacciato dall’abitazione.
Davidino la convince a dormire insieme approfittando dei limiti linguistici della ragazza che chiama il suo inguine “prato” e la sua vagina “fontana”, Davidino le chiede quindi di far dissetare il suo cavallo e fanno l’amore per quattro volte.
Tocca qui
Lo stesso escamotage linguistico è usato da J-Ax in “Tocca qui”, singolo del 1993 dell’album “Strade di città” quando per portarsi a letto una sua fan radical chic, da buon funkytarro, finge di avere i suoi stessi interessi cambiando il finale delle parole, parlando dunque del suo pene ma descrivendolo come pennello:
“Non é per offendere il tuo cervello ma siamo venuti qui perché volevi il mio pennello!”. Lei mi dice:
“…Giusto! Prepara il colore:
Ho voglia di scoprire qualche nuova posizione
Ortogonale, mica male però il tuo pennello!
Posso toccare?…“