Il dibattito sulla responsabilità scientifica si sposta sullo schermo televisivo, ed è subito “Chernobyl”.
La serie TV evento dell’anno, diretta da Johan Renck e andata in onda su la 7 dal 18 giugno al 2 luglio, indaga le luci e soprattutto le ombre della responsabilità politica nei confronti della scienza.
La teoria del principio di responsabilità è il filtro con cui analizzare la serie
Una volta era possibile dire: fiat iustitia, pereat mundus (“sia fatta giustizia e vada in rovina il mondo”), in cui “mondo” significava naturalmente quel tutto che non va mai in rovina. Ma al giorno d’oggi, come ci ricorda Hans Jonas in quel capolavoro intitolato Il principio di responsabilità, questa espressione non può più essere usata nemmeno retoricamente, perché l’andare in rovina del tutto per effetto dell’errore umano è attualmente una possibilità reale.
L’esplosione nucleare di Chernobyl, trasposta magistralmente nella fortunata serie TV prodotta dalla HBO, ne è un tragico esempio. Dalle prime scene della serie è possibile capire la direzione intrapresa dalla regia, id est, atterrire raccontando. Johan Renck ci tiene in sospeso, attaccati allo schermo fino alla fine, costringendoci a riflettere non solo sulle conseguenze etiche e ambientali della catastrofe, ma soprattutto sulle cause reali dell’esplosione del tristemente famoso reattore 4, nonché sulla responsabilità della scienza e sulla scienza. Ma di chi è la responsabilità?
Da un grande potere, derivano grandi responsabilità
Tutti sappiamo a grandi linee cosa è accaduto, ma la serie, sullo stile del documentario, è un vero e proprio viatico morale. Attraverso i suoi 5 episodi veniamo trascinati nei retroscena dell’esplosione, assistiamo ai tentativi politici di negare l’evidenza. Lo spettatore è immerso, grazie alla perfetta ricostruzione dell’Unione Sovietica degli anni ’80 e l’indubbia bravura degli attori protagonisti, in un continuo stato di apprensione, in una dimensione in cui il confine tra polis e natura è stato cancellato, in un mondo in cui non è chiaro come un simile disastro fosse potuto accadere.
Tutti sappiamo a grandi linee cosa è accaduto, dicevo, ma quel che i libri di scuola spesso tacciono è proprio la causa dell’accaduto, nonché la responsabilità della politica sovietica. Quando, alla fine della quarta puntata, dopo aver assistito a tutte le conseguenze più atroci dell’esplosione, dal machiavellismo più esasperato al sacrificio di centinaia di uomini e delle loro famiglie, la dichiarazione della responsabilità della politica sovietica sull’accaduto non può che lasciarci l’amaro in bocca, contraendola in una smorfia di deluso disappunto.
“Viviamo in un paese dove i figli devono morire per salvare le madri”
La tendenza dell’opinione pubblica negli ultimi tempi è quella di denigrare una forma di energia come quella nucleare, tanto rischiosa quanto pulita. Sebbene il rischio di un errore umano sia fatale nel caso dell’energia nucleare, tuttavia, spesso l’errore non si può circoscrivere a una distrazione della comunità scientifica.
Il caso di Chernobyl ha il pregio di ricordarci che l’errore umano è una questione di scelte, non solo scientifiche, ma anche politiche. La serie è stata altrettanto eloquente. Legasov, interpretato da Jared Harris, ammette che l’errore tecnico che ha causato l’esplosione era stato individuato dieci anni prima, ma l’articolo che avrebbe potuto evitare il disastro era stato prontamente censurato dai “compagni” al potere.
Ogni scelta politica, seppur avventata e idealista, ha un interlocutore esclusivo, con cui fare i conti, la responsabilità. Jonas scrive a chiare lettere che la responsabilità del politico consiste nel far sì che “la politica futura continui ad essere possibile”, garantendo l’esistenza delle premesse necessarie affinché questo avvenga: la procreazione, il benessere delle generazioni future, l’esistenza stessa dell’umanità. L’opera d’arte, in un mondo privo di uomini, rimane un freddo blocco di marmo, il mondo, una selvaggia distesa desolata. La procreazione viene negata a Lyudmilla Ignatenko, moglie di un pompiere accorso alla centrale di Chernobyl la notte dell’esplosione. Al momento del parto, perde la bambina, che ha assorbito le radiazioni accumulate dalla madre, morendo di fatto al suo posto. La sua storia viene dettagliatamente raccontata nella serie, insieme a quelle di altri civili.
Nessuna norma morale generale può obbligare al rischio di commettere a spese di altri errori fatali: “colui che scommette sulla propria certezza deve farsi coscienziosamente carico di un’eventualità che non si può mai escludere”, continua Jonas. Tuttavia, l’irresponsabilità della politica sovietica, che attraverso la censura, l’idealismo propagandistico, il silenzio e coercizione ha fallito nell’esercizio del potere, trova rimedio nell’azione di Boris Sherbina, interpretato nella serie da John Stellan Skarsgård. L’evoluzione di questo personaggio, da freddo e arrogante burocrate a politico al servizio della scienza, è una nota positiva rilevante, enfatizzata mirabilmente dalla regia. “Il nostro obiettivo è la felicità dell’intera umanità”, si legge su uno striscione di Pripyat.