Perché un re arriva a prostrarsi ai piedi dell’assassino di suo figlio? Perché una sorella sfida le leggi degli uomini, mettendo in gioco la sua stessa vita? E perché una madre arriva a maledire il padre di sua figlia? La risposta è unanime: per rispettare coloro che hanno perduto, onorandoli con i riti che gli spettano.

Per gli antichi Greci i riti funebri erano di importanza fondamentale: dare degna sepoltura ad un defunto era uno fra i doveri supremi che i vivi dovevano rispettare per sottostare alle leggi degli dei. Era estremamente importante che il corpo non venisse lasciato in pasto ad uccelli rapaci o cani, perché in questo caso la sua psyché, quel soffio vitale che fuoriusciva dalla bocca al momento dell’ultimo respiro, non avrebbe potuto giungere nell’Ade, il regno dei morti, e sarebbe stata obbligata a vagare senza requie fino a diventare uno spettro malefico. La mancata sepoltura era quindi una delle massime pene da infliggere a un uomo.

La morte di Ettore e il riscatto di Priamo
In Omero, il destino dell’anima va di pari passo con quello del corpo ed essa può raggiungere la sua dimora nell’aldilà solo se il cadavere ha ricevuto adeguati onori funebri e una degna sepoltura, il gèras thanònton, obbligo dei superstiti verso il guerriero, in cambio del suo sacrificio per il bene collettivo. La bellezza e l’integrità del cadavere garantiscono la pienezza e lo splendore nel ricordo dei vivi.
Nel canto XXII dell’Iliade Ettore si trovò faccia a faccia con il suo nemico di sempre: Achille. Durante la battaglia, infatti, lo sfidò a duello: le due schiere nemiche arretrarono e rimasero a guardare attonite. Il principe troiano era l’unico ad essere rimasto fuori dalle mura. Prima che il nemico lo raggiungesse i genitori, Priamo ed Ecuba, si disperarono, temendo che il guerriero acheo potesse fare scempio del corpo senza vita del suo primogenito. Ettore, rappresentato in tutta la sua umanità, voltò le spalle all’avversario, cedendo alla paura, e iniziò a correre intorno alle mura di Troia: fece tre giri completi, inseguito da Achille. Atena, che parteggiava per gli Achei, scese dall’Olimpo, raggiunse Achille, lo tranquillizzò e poi assunse le sembianze di Deifobo, uno dei fratelli più cari ad Ettore. La dea poi si diresse verso il troiano che si lasciò ingannare dal falso aspetto e decise quindi di andare a scontrarsi con il nemico a viso aperto: quella fuga gli ricordò i suoi doveri di eroe, e pur sapendo che sarebbe morto, decise di affrontare il Pelide. Ettore chiamò Deifobo che non accorse, comprese l’inganno ma comunque estrasse la spada iniziando lo scontro. Ettore mise subito in chiaro che, se avesse ucciso il nemico, avrebbe restituito il corpo agli Achei, augurandosi che anche l’altro avrebbe fatto lo stesso. Achille, guardandolo minacciosamente, disse: «Ettore, non scenderò a patti con te: come non vi è alcuna alleanza tra uomini e leoni, e tra lupi e agnelli, i quali non sono mai in accordo, ma si detestano ininterrottamente, così fra di noi non ci saranno patti, il primo che morirà appagherà Ares con il sangue del nemico». Il greco quindi iniziò ad osservare con attenzione il corpo dell’avversario: l’armatura che indossava la conosceva bene perché era la sua, la stessa che aveva indossato Patroclo. Achille dopo aver trovato il punto scoperto del nemico, situato vicino al collo, colpì con tutta la sua forza. Il troiano, in punto di morte, ancora pregava il nemico di lasciare le sue spoglie ai parenti ma l’acheo non promise. Per il corpo di Ettore, trafitto e stramazzato a terra, Achille non mostrò alcuna pietà: forò i tendini e lo legò al suo cocchio, trascinandolo e la testa, piena di riccioli neri, sollevò una nube di polvere oltre che il pianto di Priamo ed Ecuba che, impotenti, osservavano il macabro spettacolo dall’alto. Andromaca, l’amata moglie, seppe la terribile notizia mentre attendeva fiduciosa il marito nella sua stanza, preparandogli un bagno caldo. Achille non si ritenne soddisfatto: meditava ancora su quali oltraggi potesse fare al corpo del troiano per onorare Patroclo e vendicarne la morte. Ogni mattina trascinava per tre volte il corpo attorno alla tomba del compagno perduto, rispettando un rituale del suo popolo riservato ai re sacri dell’epoca. Apollo, che protesse il cadavere impedendo che si lacerasse, chiese al padre Zeus che le spoglie di Ettore venissero restituite al suo popolo, poiché un morto non poteva pregare e in più accanirsi sui defunti era ritenuto oltraggio agli dei. Zeus ordinò quindi ad Ermes di guidare Priamo all’accampamento nemico. Arrivato alla tenda di Achille, pianse, gli baciò le ginocchia e lo supplicò di restituirgli il figlio: egli accettò di barattare il defunto in un primo momento con tanto oro quanto pesava il corpo di Ettore, ma poi, invaghito di sua sorella Polissena, principessa troiana di mirabile bellezza, la volle con sé, senza accettare i doni preziosi offerti dal re. L’Iliade si conclude, nel libro XXIV, con i funerali per il grande Ettore: furono indetti dei giochi e i festeggiamenti in onore del defensor patriae durarono nove giorni, durante i quali si sentirono terribili lamenti al punto da far cadere dal cielo qualunque uccello volasse. Il corteo funebre fu aperto da Andromaca, Ecuba ed Elena. Il corpo, secondo una delle tante versioni, fu seppellito per ordine di Apollo in una città greca tenuta nascosta, forse Tebe.

Pinacoteca Comunale di Cesena.
Antigone e la sepoltura simbolica
Anche nella tragedia sofoclea del 442 a.C. troviamo il motivo dell’importanza della sepoltura. Sorge l’alba, il giorno dopo che Eteocle e Polinice, figli di Edipo, da lui maledetti poiché non si erano opposti all’esilio del padre da Tebe, si uccisero l’uno per mano dell’altro combattendo per il trono. Antigone, sorella dei due, informa l’altra sorella Ismene che Creonte, loro zio nonché nuovo re della città, ha intenzione di dare una degna sepoltura solamente al corpo di Eteocle, lasciando invece insepolto quello di Polinice, ritenuto traditore della patria: così si apre il prologo dell’Antigone di Sofocle. La giovane, chiedendo invano alla sorella di aiutarla, afferma che cercherà di dare comunque una sepoltura a Polinice, sfidando l’ordine del re. E così farà: non appena Creonte decreta che il corpo di Polinice debba esser lasciato in pasto a uccelli e cani, e che chiunque si opponga a questa decisione debba esser punito con la morte, entra in scena una guardia che informa il sovrano che qualcuno ha contravvenuto al suo ordine, gettando della sabbia sul corpo di Polinice e compiendo dunque il rito funebre, seppur simbolicamente. Furioso, Creonte è convinto che tale atto sia opera di cittadini contrari al suo governo, e congeda bruscamente il messaggero con l’ordine di rintracciare i colpevoli. Appare nuovamente la guardia, trascinando con sé Antigone. Racconta che, dopo aver tolto la sabbia sopra il corpo di Polinice ed essere rimasto in attesa, ha visto la ragazza che tornava a seppellire nuovamente il corpo. Antigone non nega di aver commesso il fatto, anzi afferma che la sepoltura di un cadavere è un rito voluto dagli dèi, potenze superiori a Creonte. Il re reagisce furiosamente rinfacciandole il mancato rispetto dei suoi ordini e confermando la sua condanna a morte, pur essendo sua nipote. Ciascuno sostiene i suoi principi: diritto del ghenos per Antigone, che esige di compiere il rituale funebre per garantire la coesione della famiglia nelle sue relazioni con gli dei, contro il diritto della polis per Creonte, che esige che le decisioni dell’autorità politica siano rispettate per garantire la coesione civica, un valore assoluto ben oltre il dato contingente della vicenda che li vede contrapposti.

La maledizione di Artemisia, un conflitto culturale
Ci spostiamo ora a Menfi, l’odierna Saqqara, situata a 30 km a sud della città moderna del Cairo. Ed è proprio qui, nel Serapeo, ossia nel tempio dedicato alla divinità sincretica Serapide, che fu rinvenuto uno dei più antichi documenti greci in forma papiracea conservati in Egitto, posto in quello stesso punto negli ultimi anni del IV a.C.: la cosiddetta maledizione di Artemisia. Questa donna, della quale null’altro si conosce, si appella alla divinità greco-egiziana Oserapis (identificato con il toro mummificato Apis, considerato manifestazione di Ptah, forse in nome composito con l’egiziano Osiride) e, affidandosi al potere della parola scritta, chiede una punizione esemplare per il padre di sua figlia, che avrebbe privato la bambina dei riti funebri e di una degna sepoltura, augurandosi che lo stesso possa accadere a lui e ai membri della sua famiglia. Il testo, scritto in greco da una mano poco esperta, ha carattere magico e religioso: è infatti una maledizione, che si ripete tre volte allo stesso modo. Evidentemente lo scrivente sperava in un’azione efficace sul mondo e si assicura, usando i segni diacritici, che possa essere chiaramente compreso. Ma perché un padre non avrebbe dovuto seppellire degnamente sua figlia? E’ una questione di punti di vista e dipende da cosa si intende per “corretta sepoltura”: infatti per gli egiziani sarebbe stata la mummificazione, per i greci del periodo ellenistico l’inumazione. Ci troviamo dunque in un contesto multi-culturale. Occorre dunque fare un passo indietro e precisare che a Menfi viveva una comunità di Ellenomenfiti, ossia dei Greci che si erano insediati in Egitto da quando il faraone Amasis assunse dei mercenari elleni, ai quali fu concesso di stabilirsi nel territorio. Ricordiamo anche che la cultura greca ormai era una realtà presente e dominava l’Egitto: nel 332 Alessandro il Macedone era stato incoronato faraone nel tempio di Ptah e, dopo di lui, la dinastia Tolemaica governò l’Egitto ellenistico dal 305 al 30 a.C., ponendosi come successori dei faraoni. Potremmo quindi ipotizzare che la madre appartenesse alla comunità degli Ellenomenfiti e che il padre fosse egiziano.

Riti sospesi a causa dell’emergenza Covid-19
E’ ormai da circa un mese che si legge sui giornali online della sospensione delle cerimonie civili e religiose, ivi comprese quelle funebri. Il funerale è in primo luogo un’occasione per l’espressione pubblica delle emozioni associate alla perdita: serve a marcare il tema della transizione, ritualizzare il fatto che la morte è un evento irreversibile. Sancisce l’uscita di una persona da una comunità, così come il battesimo o simili rituali ne sanciscono l’entrata. È uno dei riti di passaggio, tanto più significativo perché è un passaggio irreversibile. Allo stesso tempo è il punto di partenza per la ricostruzione: alcune ricerche mostrano che le persone che si sono impegnate nell’organizzazione di un funerale sono facilitate nel processo di ripresa dal lutto, che ora diventa elaborazione privata del dolore, che è un’operazione più faticosa e non sempre sufficiente.
Emerge dunque, nell’antichità così come oggi, l’importanza del rito, in qualsiasi sua forma. Le tradizioni sono la garanzia del mantenimento dell’identità della collettività di cui si fa parte: il senso di appartenenza ad essa è rassicurante, come un faro nella tempesta. Affiora dunque la necessità del rituale per ordinare il caos. Con l’attuale emergenza Coronavirus mancano ad ognuno di noi quei piccoli gesti quotidiani che compiamo automaticamente, come allacciarsi le scarpe prima di uscire o quei piccoli riti personali come prendere il caffè con i colleghi, dopo la pausa pranzo su una panchina al sole. Ma costa ancor di più la rinuncia ad alcuni rituali condivisi, come il non poter celebrare insieme le cerimonie, i funerali, i matrimoni e le festività religiose. Ed ecco che i luoghi di culto si svuotano: mentre l’immagine del Papa in una piazza San Pietro deserta rimarrà per sempre nella storia, la nostra interiorità si riempie, alla ricerca della spiritualità e della vicinanza in una nuova dimensione, tutta interiore.
