“Sulla strada” con gli “easy rider”: la vita è un viaggio tra libertà e paura

Giovani, selvaggi e liberi. È il trittico di aggettivi che meglio incapsula il desiderio di lasciarsi tutto alle spalle e non fare altro che viaggiare, che è alla base di “Sulla strada” e di “Easy rider”.

 

Il film “Easy rider” e il libro “Sulla strada” sono il manifesto della volontà di riappropriarsi di una libertà perduta e macchiata dall’incedere del progresso. Si tratta del desiderio di rivendicare i grandi spazi americani e di voler riandare alle radici dell’essenza della società americana, alla ricerca di una vera identità più umana. L’obiettivo è ribaltare l’apatico modello del borghese medio e di sublimare i suoi desideri in virtù de viaggio rivelatore, lontano dalle dinamiche della civiltà.

 

Inizia tutto “sulla strada”

Jack Kerouac ha 29 anni quando scrive il suo capolavoro, e lo scrive in sole tre settimane. Lo scrive durante una maratona di caffè e stupefacenti dal 2 al 22 Aprile 1951: nasce così “Sulla strada”. Il libro è diventato uno dei simboli della Beat Generation, ed è ancora oggi uno dei titoli più letti di sempre. Si tratta del viaggio veramente compiuto da Kerouac con l’amico Neal Cassady, rispettivamente Sal e Dean nell’opera. Jack, o meglio Sal, registra quello che vede, dal paesaggio alla gente, dalla natura alla città, ma soprattutto, registra quello che sente.

 

 Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? – è il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto ci si proietta in avanti verso una nuova folle avventura sotto il cielo

Da “On the road”, Jack Kerouac

 

L’esuberanza della partenza è accompagnata dalla deludente permanenza nei luoghi d’arrivo, colorate dalle figure di Carlo Marx, alias Allen Ginsberg, o di Old Bull Lee, cioè William Burroughs, intimi amici di Kerouac, fautori con lui del movimento Beat e personaggi sfavillanti, senza i quali il libro non sarebbe lo stesso. Inzia così un infinito viaggiare, un continuo schema ripetitivo dove i due restano incastrati nella dinamica partenza- euforia \ arrivo- amarezza. La vicenda passa così dal piano personale a quello universale: partendo dalla descrizione di uno spazio vuoto esteriore, Kerouac rivela un desolato vuoto interiore, e il lettore che vive il vuoto lo trasforma in un’esperienza di vuoto universale. È l’uomo che funziona così, che si ritrova bloccato nel circolo dell’insoddisfazione; e la grandezza di Kerouac sta nell’intuirlo e nel tacerlo. Non sarà lui a distruggere il sogno di realizzazione personale, ma lascerà che chi vuole lo scopra da sé. Tutto quello che lui può fare, è solo proporre la strada come palliativo. Un’idea, questa, presente ancora oggi, e che dominerà l’industria cinematografica fino alla nascita del road movie.

Neal Cassidy e Jack Kerouac, San Francisco,1952

 

Easy rider e il sogno perduto

“Easy rider” non è un road movie. Easy rider è il road movie. Simbolo dei disadattati, di chi vuole scappare da tutto ciò che lo rilega alla civiltà e tornare alle proprie radici, il film propone un  ricongiungimento viscerale alla madre-America, attraversandola nella sua interezza. È già nel titolo che Dennis Hopper evidenzia tale desiderio, dal momento che easy rider è in realtà un’espressione gergale americana che indica l’uomo che vive con la prostituta, in questo caso l’America, che viene non solo attraversata, ma penetrata a fondo dai due protagonisti, Billy e Wyatt, che ce la mostrano nuda e senza veli in una breve epopea di 94 minuti che va da Los Angeles al delta del Mississipi.

La strada percorsa rigorosamente in moto, mentre risuonano le migliori canzoni rock di fine anni ’60, assume il significato di una via d’uscita dal conformismo e consumismo esasperato, ma si rivela alla fine solo un’illusione, perché anche questa fa ormai parte di quella civiltà becera che ha inglobato ogni fotogramma paesaggistico di Làszlo Kovàcs. Billy e Wyatt sanno benissimo, anche dai tanti segnali e indizi disseminati lungo la strada, che il loro è un conto alla rovescia verso l’annientamento e che la realtà è che non possono sopravvivere nemmeno on the road, che la loro strada è solo estensione della corruzione e dell’incedere dell’ipocrisia borghese e che la soluzione finale è la morte fisica, ma anche simbolica: il pick up che li fa sbandare va via, mentre Billy muore e l’ultima cosa sullo schermo è la moto di Wyatt che brucia e ritorna cenere, diventando tutt’uno con la strada.

Easy Rider segna letteralmente e simbolicamente il punto di svolta in cui l’idealismo degli anni ’60 si è accartocciato nell’indulgente solipsismo degli anni ’70.

Una scena del film

Cavalieri a due ruote

In queste epopee on the road non esistono eroi, ma solo personaggi istrionici ai quali sta stretta la parte che il mondo gli ha assegnato. Ribellarsi, in questi casi, diviene obbligo morale, e la ricerca della libertà è la quête che questi moderni cavalieri senza armatura, ma con capelli lunghi e basette, si propongono. Con coraggio e anche con un po’ di incoscienza, abbracciano la loro folle missione e se ne fanno portavoce, compiendo una missione anche in nome di coloro che non hanno avuto la forza di scendere sulla strada e sporcarsi di terra. Il desiderio di scappare e ricominciare, di errare nel duplice senso di vagabondare e sbagliare- pertanto di vivere– attraversa generazioni di uomini irrequieti che aspettavano solo di poter trovare una voce. D’altronde l’alienazione, l’irrequietezza, l’insoddisfazione erano già lì in attesa quando Kerouac indicò la strada, gli altri non hanno fatto nient’altro che imboccarla.

 

 

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