Francesco D’Assisi, figura che appare lontana da noi, è in realtà un esempio di coraggio e perseveranza a cui si dovrebbe attingere.

Francesco d’Assisi, personaggio famoso quasi fumettisticamente nella mitografia medievale, è in realtà molto di più di ciò che viene descritto: Dante ne fornisce un ritratto alquanto singolare, ma che fa emergere l’umanità di Francesco, proprio mediante la sua santità.
Introduzione all’iconografia francescana
Di ampio rinnovamento per la cultura artistica del Trecento furono sicuramente gli affreschi della Cappella Bardi in S.Croce a Firenze. Essi rinnovano l’iconografia francescana già iniziata da pittori come Jacopo Torriti, Cimabue, o il cosiddetto “Maestro di S.Francesco”, inserendola in un contesto classicheggiante e di ampio rigore prospettico, com’era nell’uso giottesco. Permettono altresì di studiare al meglio l’arte giottesca, in quanto sono i dipinti meglio conservati. Quello su cui vorrei concentrare la mia attenzione è la scena della “Prova del fuoco”. Essa riguarda un momento assolutamente importante per l’affermazione del monito francescano: il viaggio in Egitto durante la quarta crociata, durante il quale Francesco incontrò il sultano Malek-al-Kamel, reggente del tempo.
La prova del fuoco
A destra si nota Francesco che, nella sua teatralità nota nelle sue varie biografie curate da vari autori, fra cui Tommaso da Celano e Bonaventura di Bagnoregio, è pronto ad effettuare la prova del fuoco, pur di manifestare la verità della propria fede. Al centro vi è il sultano reggente, alla sua sinistra i suoi funzionari. La tridimensionalità è resa dai contorni che vanno sempre più dissolvendosi rispetto ai dipinti del retaggio iconografico, e dalla lieve ombreggiatura dei panneggi degli abiti. La santificazione di Francesco avviene per mezzo della sua aureola, che lo distingue nettamente da tutti gli altri. Con evidente teatralità, la sua mano è pronta ad effettuare il rito della prova del fuoco senza alcuna esitazione: è lì, in alto, pronta a compiere il gesto, mostrandosi al pubblico. Dietro il Santo è presente un frate, il quale è immerso in una dimensione di preghiera quasi estatica: l’intervento divino è necessario per la riuscita dell’impresa che, ahimè, fallirà. Da questa dimensione immersa nel Divino sono completamente esclusi i funzionari del sultano, che osservano l’azione dei frati con disprezzo, preludendo dunque l’epilogo della vicenda. I colori rispecchiano il Naturalismo, ma l’azzurro profondo del cielo non può che alludere alla magnificenza divina.
Dante Alighieri mitografo di Francesco d’Assisi
Oltre ai biografi sopracitati, chi offre uno spaccato della vita di Francesco d’Assisi assolutamente romantico e quantomai singolare è sicuramente Dante Alighieri. Nell’undicesimo canto del Paradiso, ultima cantica della “Commedia”, Dante fa pronunciare l’elogio del fondatore del francescanesimo a Tommaso D’Aquino, un intellettuale domenicano che fu uno dei maestri di Dante. La scelta non è casuale: Dante denuncia la corruzione ecclesiastica anche mediante la voce di Tommaso, uno dei fondatori della filosofia cui l’autore si accostò: la Scolastica. Essa è frutto di una versione dell’aristotelismo in chiave cristiana, dunque assolutamente anti-averroista: contro il concetto di mortalità dell’anima con il corpo, dell’eternità della materia, e così via. Il francescanesimo risulta essere una risposta utile alla simonia, al nepotismo ecclesiastico.
Francesco d’Assisi nell’undicesimo canto della Commedia
Il ritratto del Santo dipinto da Tommaso è alquanto singolare: Francesco non è inquadrato nella sua umanità, ma unicamente nella sua santità, come “alter Christus”, come “deus ex machina”. Il racconto si diparte da un nodo allegorico, secondo il quale il Santo avrebbe contratto un inscindibile matrimonio con Madonna povertà. Essa rimase senza proposta di matrimonio alcuna, a seguito della vedovanza da Gesù Cristo. Ella fu una sposa fedele, più di Maria: quest’ultima era rimasta ai piedi della croce, Povertà invece “con Cristo pianse in su la croce”. Nulla fu sufficiente a far tornare in auge lo stile di vita fedele alla povertà, dunque: né l’intervento di Cristo, né quello di Amiclate, pescatore povero che aveva offerto riparo a Giulio Cesare durante la Guerra civile. La povertà, dunque, raggiunse il suo massimo compimento come stile di vita solo grazie al Santo. L’impresa di questo impavido personaggio di convertire il Sultano ed il suo popolo però non riuscì: nonostante l’irrefrenabilità, il coraggio e la costanza di Francesco, questi non bastarono ad irrorare quei cuori troppo aridi per poter accogliere il messaggio evangelico. Dante, con la sua magnifica capacità di sintesi cinematografica, descrive lo stato d’animo del Santo con il correlativo oggettivo (ante litteram) del Monte della Verna: “redissi al frutto de l’italica erba, nel crudo sasso intra Tevero e Arno”. La metonimia del sasso fa comprendere quanto distrutto ed inaridito fosse l’animo del Santo, a seguito della disfatta delle sue aspettative. Egli viene descritto anche in base alla sua sepoltura: non desiderava altra bara, se non la terra cruda e fredda, povera e metafora del grembo materno divino. Dunque questo personaggio la cui biografia si contamina inscindibilmente con la mitografia, costituisce un exemplum di fedeltà ad un credo, ma soprattutto di coraggio e di perseveranza.