Fatta l’Italia, van fatti gli Italiani: Manzoni non ci riesce, ma il calcio sì

Il sentimento d’appartenenza ed identità nazionale è molto cambiato dai tempi del risorgimento: da Manzoni a la nazionale di calcio.

 

“Noi siamo da secoli calpesti e derisi, perché non siamo popolo, perché siam divisi” così recitano i primi versi della seconda strofa dell’Inno di Mameli. Invece, nel vocabolario, alla voce nazione, compare il significato di “complesso degli individui legati da una stessa lingua, storia, civiltà, interessi, aspirazioni, specialmente in quanto hanno coscienza di questo patrimonio comune”. Qualcosa non torna: parlando di lingua, storia e civiltà, non esiste nazione più scissa dello stivale. Eppure, ad un certo punto, come per magia, ecco sorgere un periodo che passerà alla storia come Risorgimento e quella diversità diventa sinonimo di “coscienza di patrimonio comune”, ossia d’appartenenza ed identità. In parte ci salviamo in calcio d’angolo (per anticipare un argomento) con quella definizione di nazione.

Risorgimento o mettiamoci d’accordo

Il Risorgimento passa attraverso rivolte ispirate dalla Carboneria, le quali miravano alla concessione di libertà costituzionali (Napoli 1820-21) e poi alla libertà dal dominio austriaco (1831), ma che furono sempre represse. Ma poi moti rivoluzionari da tutta Europa, un’Europa anch’essa golosa di diritti, indipendenza e moti nazionali, quella del ’48, delle primavere dei popoli, ed ecco le guerre d’indipendenza (’49-’59), i Mille ed infine l’Unità. Animo romantico e massonico, diplomatico e profittatore, oscuro, il quale anche alla luce risultava diviso e diverso, ma unito per l’unità. Teorici ed ideologi: Mazzini, Cattaneo, Gioberti coinvolgevano quella fascia intellettuale borghese e cattolica. Eroi: Garibaldi e i mille erano paladini del popolo e dei nobili stanchi dei Borbone. Burattini: il re Vittorio Emanuele era santone dei monarchici e dei tradizionalisti (tra cui Garibaldi). Burattinai: Camillo Benso Conte di Cavour è stato il collante dello scacchiere geopolitico. La storia ci racconta di queste anime d’idee diverse per trasmettere l’impressione di unità per l’unità anche se così non è stato: da italiani ognuno ha sempre badato prima ad i propri interessi.

Don Lisander

Figlio del salotto buono milanese, Alessandro Manzoni è tra gli intellettuali militanti più attenti a ciò che avviene nel proprio tempo. Dedica parte della sua produzione poetica alla questione risorgimentale, in diverse forme. Al fine di celebrare l’idea dell’unità nazionale dedica inni e cori all’Italia. Famosissimo è il Marzo 1821, quasi una marcia guerresca ispirata dalla speranza di libertà dopo i moti rivoluzionari del ’21, appunto. A Manzoni viene poi affidato il compito di risolvere la questione della lingua, sull’onda lunga di quel problema enorme all’indomani dell’Unità: fatta l’Italia, van fatti gli Italiani. Manzoni fa il suo, per lo meno ci prova, e, dopo la “sciacquata dei panni in Arno”, i sui “Promessi Sposi” sono il modello di perfezione linguistica. Tale modello fu pari a quel sommo tentativo di Dante di comporre la Commedia dimostrare come il fiorentino fosse Il “volgare illustre”.

Severo ma giusto

Va detto, per amor di verità, che, numeri alla mano, l’opera di Manzoni, dal punto di vista linguistico, costituì un esempio illustre di unità linguistica, ma non fu efficace al fine della diffusione di questa. In tale ottica sarà fondamentale l’opera di Pellegrino Artusi, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), perché sì, quando si parla di cucina, siamo tutti Italiani. Inoltre sarà decisivo il programma televisivo del “prof” Albero Manzi Non è mai troppo tardi. Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta, andato in onda dal 1960 al 68, prodotto dalla Rai, il quale nell’Italia del dopoguerra, consenti a migliaia di persone di conseguire la licenza elementare. Fatta l’Italia, gli Italiani, ancora 60 anni fa, non erano stati fatti.

 

L’azzurro unisce

Che palle sti Savoia, cacciamoli. Eppure l’azzurro della loro casata unisce. Quando la nazionale di calcio scende in campo siamo tutti allenatori davanti al televisore, pronti a suggerire al CT di turno sostituzioni, tattiche e schemi. Ecco poi comparire quel Tricolore sui balconi o legato alle spalle dei tifosi come fosse un mantello da supereroe. E semmai vincessimo il torneo, Europeo o Mondiale che esso sia, “stringiamoci forte e vogliamoci tanto bene, perché oggi è più bello essere Italiani”. Vediamo scendere tutti in piazza neanche come nel ’45 a festeggiare la liberazione dai Nazisti. Il calcio, massima espressione del sentimento popolare italiano, è chiaro che sia ormai il più alto e unico punto d’incontro tra “l’Alpi e Sicilia”.

L’Italia unita, non è mai esistita

L’Impero Romano non era Italia, provare a ricrearlo puzza di morto e camicie nere.

Eravamo inorriditi negli anni 60 dagli Americani e da quella follia chiamata segregazione raziale, noi Italiani democratici e affatto razzisti. Non è mica razzismo quando un imprenditore, a Torino, l’appartamento per i dipendenti FIAT non lo affitta a Siciliani e Calabresi. Ipocrisia. E’ agghiacciante vedere come oggi ancora persistano tendenze simili a queste. Ma siamo un popolo, gente unita, perché “l’Italia è il paese più bello del mondo”. E poi alle elezioni “non vado a votare perché questo è un paese di merda”. Ma quando gioca la nazionale, purtroppo o per fortuna siamo tutti, o quasi, a guardarla in tv.

Aveva ragione Giorgio Gaber con quel testo di “Io non mi sento Italiano” (di cui consiglio l’ascolto e la lettura) nel raccontare come siamo uniti nella divisioni e tutti, in fondo in fondo, non si sentono Italiani, ma per fortuna o purtroppo lo sono.

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