Quante volte, guardando i vostri parenti durante uno di quei lunghissimi e confusionari pranzi in compagnia, vi siete arresi al fatto che la vostra famiglia sembra tutt’altro che normale? Se per anni avete cercato qualcuno che confermasse questa vostra teoria, dimostrando definitivamente che la “famiglia Mulino Bianco” in realtà poco spartisce con quello che si nasconde nelle case italiane, gli psicoterapeuti Salvador Minuchin e Murray Bowen sono qui per intervenire in vostro favore, pronti a dirvi che non solo nessuna famiglia è normale, ma che, al contrario, ognuna possiede il suo peculiare tipo di anormalità.

Appartenenza e differenziazione: due facce della stessa famiglia
Quando Minuchin scrisse che “la famiglia è bussola relazionale di ogni individuo” forse già aveva intuito che – esattamente come l’ago di una bussola – la struttura famigliare non è in grado di mantenersi sempre sul proprio asse, ma è costretta a subire costanti riorganizzazioni e cambiamenti di traiettoria. Nello specifico, come teorizzato dal collega Bowen, il crocevia principale di queste imprescindibili oscillazioni è caratterizzato da due poli precisi: appartenenza e differenziazione. Per quanto riguarda la prima componente di questa diade, la famiglia (sia essa tradizionale, monogenitoriale, allargate ecc.) fin dalla propria nascita riveste il compito di “creatrice d’appartenenza”, costruendo un ambiente psicologico ed emotivo capace di far sentire ogni singolo membro come parte integrante di quel nucleo famigliare in cui “il tutto è diverso dalla somma delle parti”. La famiglia, infatti, non è solamente la somma degli individui che la compongono ma – esattamente come accade in una reazione chimica – essi interagendo creano un nuovo ed irripetibile prodotto intriso di legami, relazioni, fusioni caratteriali e vissuti.
Allo stesso tempo, però, anche all’interno di una matrice coesa ed unita come quella famigliare, ciascun membro deve possedere un proprio grado di differenziazione, unicità e singolarità, le quali in futuro gli permetterà di assumere un’identità sociale e personale separata da quella della famiglia.
Appartenenza e differenziazione, seppur posti agli antipodi l’una dall’altra, non sono costrutti mutamente esclusivi: al contrario, per raggiungere quello stato di perfetta stabilità e maturità individuale che Bowen descrisse come la “Posizione del Sé”, queste due componenti sono infatti consequenziali. Senza un viscerale e radicato senso di appartenenza percepito dal membro di una famiglia, nessun distacco o separazione sarà mai percepito in modo funzionale e positivo per l’individuo: paradossalmente, infatti, solo il giusto grado di appartenenza percepita nei confronti del nido può permettere all’individuo di “spiccare il volo” senza sentire sotto di sé un vuoto spaventoso, ma piuttosto con la certezza che per quanto possa andare lontano ci sarà sempre una casa cui far ritorno.

Una domanda però a questo punto appare ovvia: come è possibile capire se effettivamente all’interno delle nostre famiglie esista un equilibrio e se, di conseguenza, ognuno di noi abbia raggiunto questa fantomatica “Posizione del Sé”?
Riguardo a questo, sempre Bowen nel 1979 scrisse che “un Sé differenziato è quello che riesce a mantenere l’obiettività emotiva anche quando è dentro un sistema emotivo in fermento, ma che allo stesso tempo si mantiene attivamente in relazione con le persone-chiave del sistema”. In poche parole, ognuno di noi dovrebbe essere in grado di mantenere obiettività pur essendo in una situazione emotivamente carica, conoscere i propri bisogni, sapere come agire, conoscere perfettamente come e quanto gli altri influenzino le sue decisioni e, da ultimo, essere totalmente in grado di prendere distanza da ciò che può nuocergli. Inutile dire che, come confermato anche dallo stesso psicoterapeuta, questo in realtà non accade quasi mai.
Se quindi è inevitabile che all’interno di ogni famiglia esistano degli squilibri di “anormalità”, vediamo nel dettaglio in che modo essi si manifestano e come si distanziano da quelle che potremmo definire come “famiglie ideali” o “famiglie connesse”.
Famiglie invischiate: una persona starnutisce e un’altra si soffia il naso
Quando un nucleo famigliare tende esageratamente verso il polo dell’appartenenza, ci troviamo di fronte alle cosiddette famiglie invischiate. Questo tipo di famiglia possiede dei confini interni talmente diffusi da provocare una totale condivisione delle emozioni e dei bisogni ed un’eccessiva compartecipazione, come se il corpo famigliare fosse unitario e indistinguibile, tanto che parlando di quest’ultimo si tende a dire che “quando un membro della famiglia starnutisce, un altro si soffia il naso al posto suo”. Le persone che vivono l’invischiamento faticano a differenziarsi, possiedono forti livelli di dipendenza e non riescono a sentirsi “soggetti” in maniera chiara e compiuta. Le conseguenze future di questa eccessiva forma di indifferenziazione potrebbero essere insicurezza, dipendenza nei confronti di partner o figure terze, nonché la costante necessità dell’opinione altrui per definire sé stessi. La degenerazione di questo atteggiamento, potrebbe addirittura sfociare in una condizione definita del “figlio cronico”: si tratta di un adulto che non è riuscito ad assumere un ruolo maturo all’interno della sua famiglia, restando imprigionato in una posizione infantile, di dipendenza emotiva dai genitori, dal partner o talvolta persino da un fratello più grande.
Allo stesso tempo, la mancanza di confini interni rigidi capaci di delineare il limite tra sé stessi e gli altri membri della famiglia rende quest’ultima incapace di distribuire esplicitamente i campi di responsabilità, sfociando poi in problemi cronici come quello della parentificazione, ovvero quello scambio di ruolo involontario che si verifica tra due generazioni e che vede il genitore farsi accudito e il figlio diventare accudente, indipendentemente dalla sua età. Un chiaro esempio di questo tipo di rapporto? Quello tra Gloria Delgado-Pritchett e il figlio Manny all’interno della serie tv “Modern Family”, in cui l’intraprendente seppur giovanissimo primogenito spesso assume il ruolo di “genitore autorevole” nei confronti dell’impulsiva mamma colombiana. O ancora, per le amanti delle serie in rosa, lo speciale rapporto di “Una Mamma per Amica” tra Lorelai e Rory Gilmore, all’interno del quale quello che dovrebbe essere semplicemente un legame madre-figlia la maggior parte delle volte si trasforma in un rapporto tra sorelle.

Famiglie disimpegnate: una persona starnutisce e nessuno dice “salute!”
L’altra faccia della medaglia delle famiglie invischiate, è invece personificata da quelle che massimizzano l’assunto della differenziazione e spingono precocemente i componenti della famiglia verso l’autonomia. In questo tipo di nuclei famigliari, che prendono il nome di famiglie disimpegnate, è valorizzato il senso di unicità ed individualità di ciascun membro, con il risultato che se da un lato questo permette agli individui di costruire la propria identità, dall’altro vengono a mancare intimità, senso di sicurezza ed affidamento verso l’altro. Allo stesso tempo intimità, fiducia, nonché senso di dipendenza psicologica e fisica dall’altro, vengono indicate dalla famiglia come elemento di disvalore e di conseguenza rifuggite. Un esempio televisivo di questo tipo di famiglia è per esempio quella caotica e fortemente individualista della sitcom statunitense “Malcom In the Middle”, all’interno della quale i rapporti tra genitori, figli e fratelli tendono ad essere unidirezionali e – seppur sempre uniti dal filo conduttore dell’affetto familiare – spesso egoistici e tesi ad interessi individuali.
Tra le degenerazioni possibili all’interno delle famiglie disimpegnate, una di queste è il taglio emotivo: un brusco allontanamento fisico e/o emotivo, che si manifesta quando a causa di un eccessivo distacco, una lite o una divergenza di opinioni, un membro sente di dover interrompere un legame di appartenenza alla propria matrice famigliare. Più netto sarà il taglio effettuato nei confronti dei propri famigliari, più è prevedibile che una persona ripeterà lo steso modello nelle sue relazioni amorose ed amicali future.

Triangolazione patologica secondo Minuchin
Tra le altre relazioni famigliari che secondo Minuchin potrebbero dimostrarsi sintomatiche di un problema, ritroviamo poi quelle relative al triangolo famigliare tra madre, padre e figlio. Nello specifico esse sono tre:
- Coalizione genitore-figlio, durante la quale si crea un’alleanza stabile tra uno dei genitori ed il figlio, uniti contro l’altro genitore
- Deviazione-attacco, nella quale i genitori uniscono le forze per controllare il comportamento distruttivo di un figlio, che diventa capro espiatorio di una rivalità ed incoerenza che in realtà coinvolge i genitori stessi
- Deviazione-supporto, in cui i genitori coprono e nascondono le tensioni tra loro, concentrandosi in modo iperprotettivo su un figlio che viene identificato come malato
In alcuni casi però la triangolazione potrebbe rivelarsi tutt’altro che patologica, ad esempio nel caso in cui la terza persona – piuttosto che indebolire il sottosistema “coppia” dei genitori – agisca come attivatore di risorse relazionali o come mediatore di conflitti ed incomprensioni, a favore dell’evoluzione dell’intero sistema
Minuchin e la famiglia dinamica
Sebbene questa carrellata di esempi disfunzionali ci porti a credere che quelli appena descritti siano comportamenti e dinamiche da evitare, la verità è che – seppur in misura minore – esse caratterizzano o potrebbero caratterizzare ciascuna di quelle tanto ambite famiglie ideali o asintomatiche citate all’inizio. Messe da parte le differenze e i limiti che contraddistinguono ogni nucleo, ciò che più le accomuna le rende “famiglie” nel vero senso di termine, secondo Minuchin, è infatti l’impossibilità di essere riassunte dentro schemi statici e fissi. La vera peculiarità di queste ultime è infatti quella di sapersi trasformare, adattandosi e ristrutturandosi per continuare a funzionare e mettendo in moto modelli transazionali alternativi che ne mantengano inalterata l’identità nonostante le mille oscillazioni a cui sono quotidianamente soggette.
Il tutto in un’ottica di respiro comune e connessione nel presente, passato o futuro che solo la famiglia è in grado di dare alla persona. In sostanza, non importa che “quando una persona starnutisce” qualcuno si soffi il naso al suo posto o che, al contrario, nessuno si preoccupi di dire “salute!”. L’importante è che, indipendentemente dalla reazione ad esso, quello starnuto venga sentito.
Francesca Amato