Molti dei nostri fraintendimenti riguardo al rapporto mente-corpo sono radicati nel linguaggio, ed è stato così per secoli. Ci si è chiesti spesso quanto cambierebbe il nostro modo di concepire il mondo se disponessimo di un linguaggio differente.

Secondo Denis Noble, docente di fisiologia cardio-vascolare presso l’Università di Oxford, culture differenti possonoinfatti concettualizzare fattori come “mente”, “anima” e “sé” (e anche concettiteologici come “Dio”). Naturalmente non vi sono lingue né culture privilegiate:lingue diverse dalla nostra celano anch’esse illusioni basate sul linguaggio,ed è probabile che siano di tipo molto differente.
Se il “sé” (l’”io”, come fu concepito da Cartesio e come tendono a concepirlo oggi leneuroscienze, sia pure in una veste nuova) è un oggetto a cui ci aggrappiamo perché il nostro linguaggio e la nostra cultura non permettono difare altrimenti, è importante sapere che vi sono culture in cui esso non esiste: o comunque esso non è concepito né come sostanza separata che interagisce col cervello (secondo la visione cartesiana) né come una parte del cervello stesso (secondo la visione moderna).
Questo èstato, per più di due millenni, uno degli obiettivi della meditazione buddhista: l’idea della privazione del sé, del “sé che scompare” e del“lasciarsi andare”. Alcune forme di buddhismo, in cui la metafisica occupa pochissimo o nessuno spazio, non sono altro che pratiche codificate, che non contemplano nessun conflitto con la scienza. Ma non si intende in questa sede fare proselitismo buddhista. Si può apprezzare un’intuizione da qualunque parte essa provenga, che sia o meno d’accordo con il contesto in cui è inserita.
Alcunimistici cristiani, in particolare Meister Eckart, hanno formulato analoghe intuizioni, ma come rimarca Denis Noble, nel suo La musica della vita, per essi il compito è stato molto più arduo nel contesto della loro cultura, di quanto lo sia stato per i buddisti nella cultura orientale. Oggi sono pochissimi i seguaci di Meister Eckart nella tradizione cristiana, mentre sono milioni i seguaci del Buddha.

Questa differente popolarità può dipendere dal fatto che l’”assenza del sé” èprofondamente radicata in alcune lingue dell’Estremo oriente in cui fiorisce il buddhismo. Se Cartesio fosse stato giapponese o coreano, sostiene Noble, avrebbe avuto non poche difficoltà nel formulare il suo celebre «cogito ergosum»: il modo più naturale di formulare l’equivalente giapponese o coreano di questa affermazione sarebbe «pensare, dunque essere», invece del nostro «penso, dunque sono».

Normalmente, il soggetto manca in queste lingue: le parole che traducono “io”, “me” e persino “tu” sono usate solo a fini enfatici. La parola “io” non si cela nemmeno nel verbo perché, diversamente da quanto accade per l’italiano o il francese, la forma verbale non si coniuga con il soggetto. Sarà il contesto,oppure il riferimento a un nome proprio, a individuare il soggetto della frase.
È bene specificare che, naturalmente, le traduzioni coreana e giapponese del «cogito ergo sum» includono il pronome “io”, necessario per comprendere nelle rispettive lingue il significato dell’affermazione del filosofo francese.
Ad ogni modo, emerge da quanto fin qui affermato come queste lingue enfatizzino la “fattività”delle cose, i processi che hanno luogo e quindi il verbo, piuttosto cheil soggetto, titolare dell’essere e del fare: a volte il verbo è sufficiente da solo a formare una frase completa, come se non avesse bisogno di nulla o nessuno che ne possieda la titolarità.

Non è quindi sorprendente che in una siffatta cultura, quella in cui il buddhismo ha fatto più proseliti, il “sé” abbia molte più caratteristiche in comune con un processo piuttosto che con un’entità. Noble trova di grande aiuto, per losviluppo delle neuroscienze, pensare al sé in questi termini. Il sé, l’”io”, èdunque dove si trova il mio corpo perché ne è uno dei più importanti processiintegrativi: autentica biologia dei sistemi.
Per questa ragione queste lingue sono dette pro-drop, dall’inglese pronoun drop, lasciar cadere il pronome; è il parametro che identifica le lingue in cui è possibile lasciare implicito il soggetto della frase. A rigor di logica anche l’italiano, in modo differente rispetto alle lingue orientali, è pro-drop.
Ragionando inquesto modo è più facile evitare i labirinti concettuali in cui è facileperdersi nel vicolo cieco di un linguaggio privato. Non siamo obbligati a pensare all’”io” come a un oggetto, quindi non vi è alcun bisogno di cercare una parte del cervello in cui esso sarebbe collocato.

La mente si concentra su ciò che accade, sui processi, su ciò che sta facendo: lo permette l’assenza di un’esplicita identificazione del soggetto, che struttura il pensiero di conseguenza, e rende quindi più naturale considerare come un processo piuttosto che un oggetto. Secondo questa visione, l’autocoscienza non sarebbe una qualità oggettiva delle nostre facoltà celebrali, bensì ne sarebbe un fattore emergente.