I Pinguini Tattici Nucleari dialogano con Jacques Godbout e Jacques Derrida e, con la loro canzone “nonono”, ci presentano una nuova idea di libertà, quasi – verrebbe da dire- anticonvenzionale.
Come viene interpretata, convenzionalmente, la libertà? Nella tradizione filosofica, la libertà è stata spesso e volentieri contrapposta alla schiavitù. Ce lo ricorda, per citare un esempio tra tanti, San Tommaso D’Aquino, nel suo “De Regime Principum”: è “libero colui che è padrone di sé, servo colui il cui essere appartiene ad un altro.” I Pinguini Tattici Nucleari, con “nonono”, ci dicono invece: “la più grande libertà è quella che ti tiene in catene”. A questo punto ci troviamo costretti a chiederci: siamo così sicuri che libertà e schiavitù siano due opposti inconciliabili?
Siamo liberi perché siamo unici
Il saggista canadese Jaques Godbout e il filosofo francese Jaques Derrida darebbero ragione ai Pinguini, rispondendo che no, non ne siamo affatto sicuri. Alla base di entrambe le posizioni sta il presupposto che l’uomo è, per natura, un essere sempre in relazione. Ne “Lo spirito del dono”, Jacques Godbout mette in luce la più pericolosa delle illusioni moderne: l’uomo è un essere autonomo, svincolato da ogni legame, e quindi da ogni autentica responsabilità. Godbout individua tre principali sistemi che regolano la vita associata: Stato, mercato e dono. Il sistema del dono indica quella realtà che descrive tutti i rapporti interpersonali non votati all’utile o al profitto, ma basati unicamente sull’affettività. Ora, ci sono due tipi di libertà. Il primo tipo di libertà è quello che va ricercato nello Stato e nel mercato, e che questi si impegnano a garantire: è la libertà di chi può scegliere la quantità e la durata dei propri obblighi. Questa libertà è illusoria perché, per ottenerla, dobbiamo tradire il nostro rapporto originario con il mondo, rinunciare ad essere unici, omologarci (seppure inconsapevolmente) gli uni agli altri.
“E me l’ha detto il pakistano (no no no)
Da cui ho comprato le rose
“Capo ricordati che la felicità sta dentro alle piccole cose”“
Le parole dei Pinguini fanno breccia nella questione. Di norma, il rapporto consumatore-venditore di rose vuole essere un rapporto mercantile. Se non sono soddisfatto del prodotto che mi è stato venduto, io sono libero di passare senza troppa difficoltà ad un altro venditore. Nel mondo mercantile noi non vediamo gli altri, vediamo soprattutto merci e circolazioni di denaro. C’è una tendenza troppo forte ad appiattire la ricchezza dei rapporti interpersonali, riducendoli a mere relazioni di convenienza. Nella canzone il pakistano resiste a questo riduzionismo mercantile, rompendo il rapporto economico tra venditore e consumatore: infatti regala al ragazzo, al di là delle rose, per cui il ragazzo ha pagato, un monito e un insegnamento di vita. Il ragazzo si ricorderà del pakistano non perché gli ha venduto le rose (in questo è uguale a tutti gli altri pakistani che vendono rose), ma per le parole che egli amichevolmente gli ha rivolto. Il dominio degli affetti, altrimenti detto socialità primaria, è proprio questo: il regno del dono e della condivisione. È questa la seconda forma di libertà, quella più autentica, perché più in sintonia con il nostro essere.
La libertà che ci incatena
“E spettinata resti qua
Perché la più grande libertà
È quella che ti tiene in catene
Yeah, yeah, yeah
I pugni in faccia che mi dai
Li conservo nell’anima
Accanto a tutti i “ti voglio bene”“
Se l’amore è un qualcosa di irrazionale, che sfugge al nostro controllo, tuttavia la scelta di legarci e di restare accanto ad una persona dipende in certa misura da noi. La libertà non è, come ci vuol far credere l’illusione della modernità, il non dovere niente a nessuno e l’essere svincolato da qualsiasi relazione. Le persone possono capitare nella nostra vita per caso, per incontri fortuiti, ma da quel momento noi siamo liberi di sceglierle ancora e ancora. Questa libertà ci tiene incatenati all’altro: proprio in questo sta la sua bellezza e anche la sua difficoltà. Nella libertà, infatti, non siamo soli con noi stessi, siamo in compagnia di un’altra persona, che resta però sempre un mistero irrisolto e irrisolvibile, anche perché ci appare incostante: un minuto ci prende a pugni in faccia e quello dopo ci regala dolci carezze. È in questa direzione che si dirige la riflessione di Jacques Derrida: ciascuno di noi è un mistero. Siamo persone estremamente enigmatiche sia per noi stessi che per gli altri. Ogni persona è chiamata a scegliere qualcuno con cui condividere il segreto dell’esistenza, e questa scelta comporta sempre un sacrificio: nel momento in cui il ragazzo della canzone sceglie di dedicare il suo tempo e la sua dedizione a questa ragazza, lui le sacrifica tutte le altre ragazze possibili.
Due corpi e due anime
“Hai detto “impara a vivere da solo” (no no no)
Ma solo ci sapevo stare
La mia solitudine era un mondo magico che io ti volevo mostrare
Che bello quando balli con quegli occhi gelidi
Mi piaci se ti muovi come fanno i lemuri
Sono l’ultimo dei tuoi pensieri, tu mi eviti
Ma gli ultimi saranno i primi come Steven Bradbury
Sei la sfida finale di Takeshi’s Castle
Io ci provo a capirti e non capisco un cazzo
Guarda che notte
C’è la luna piena
E dici “ti amo solo perché mi fai pena”“
In questo sta la vera responsabilità: davanti ad un tale sacrificio si deve tacere perché non c’è alternativa. Nessuno potrà comprendere perché io ho preferito legarmi ad una persona o ad una causa piuttosto che ad un’altra. Il desiderio, da parte del ragazzo, di stare con la ragazza non deriva da un’ incapacità di stare solo con se stesso. Il ragazzo è perfettamente in grado di stare da solo ma sa che non è quella la soluzione, che non è questo il segreto della vita. Egli sa che non esiste l’individuo isolato di cui la modernità fa l’apologia. Ciò che dà significato alla nostra vita è la qualità delle nostre relazioni, quelle relazioni per cui scegliamo di impegnarci. Così il ragazzo vuole condividere il segreto del suo mondo interiore con la ragazza e desidera che lei faccia lo stesso con lui. Tuttavia sembra proprio che questa totale condivisione, il sogno dei due corpi e un’anima, non si potrà mai avere perché lui, per quanto si sforzi, continua a non capirla. Ci sarà sempre una certa distanza tra le loro anime, così come tra i loro corpi.
Libertà come interdipendenza
Alla fine è vero: la libertà è essere padroni di sé, operare nel mondo con consapevolezza, e tante altre cose. Ma la libertà è, in un certo senso, anche una forma di schiavitù reciproca. La libertà non è indipendenza ma nemmeno dipendenza: è interdipendenza. Essa è dolce-amara, amara perché impone il sacrificio ed è compiuta nel silenzio, dolce perché permette di dare significato alla vita. Il desiderio di libertà è infatti il desiderio di poterci legare agli altri, quegli altri che sono così affascinanti per noi proprio perché non riusciamo a comprenderli. Derrida usa la seguente espressione: “ogni altro è tutt’altro”, ogni altro porta con sé un mondo che non finiremo mai di esplorare. Lo aveva già capito, circa cent’anni prima, lo scrittore Marcel Proust che nella sua “Ricerca del tempo perduto” ci dice che una persona non è mai limpida, ma un’ “ombra dove non possiamo mai penetrare“. Anche per questo motivo il ragazzo non riuscirebbe mai a giustificare perché ha scelto lei, proprio lei che lo evita e per cui spesso è l’ultimo dei pensieri, e non una qualsiasi altra ragazza. La più grande libertà è scegliere a chi sacrificarsi e chi sacrificare. La più grande libertà non è essere soli nella certezza, ma essere uniti nel mistero. La più grande libertà non è quella che ti lascia libero di partire, al contrario:
“È quella che non ti lascia andare via“