“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo.” (Primo Levi, Se questo è un uomo)
La singola esperienza di un deportato diventa il punto di partenza di un’analisi profonda del nostro mondo, delle sue contraddizioni e dei suoi limiti. Il particolare permette di esplorare l’universale, approdando dalla filosofia di Benedetto Croce alle parole dello scrittore Cesare Pavese, esplorando, con grande carica attualizzante, uno dei più celebri miti della letteratura greca.
Una storia da raccontare: la memoria di Alberto Sed
Alberto Sed, nato il 7 dicembre del 1928 a Roma, da una famiglia ebraica, arriva nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau il 23 maggio del 1944. Assiste alla morte della madre e delle sorelle, prende parte ad una delle tragedie più sconvolgenti della storia dell’umanità. Sopravvissuto alla tragedia, muore a Roma all’età di quasi 91 anni, il 2 novembre del 2019. Dopo gli accaduti che cambiarono per sempre la sua vita, decise di rimanere in silenzio per circa cinquant’anni, restio dal raccontare la sua storia di dolore e di morte; solo alla fine prese la decisione di renderla nota, soprattutto nelle carceri e nelle scuole, offrendo una preziosa testimonianza, ricca di particolari inediti, utile a ricostruire storie parallele di altri deportati ad Auschwitz. Proprio per questo motivo, nel 2015, gli vene conferita l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Alberto Sed scrive anche un libro, Sono stato un numero (2009), legando la sua esperienza alla memoria della pagina scritta, alla letteratura, dimostrandone il potere conoscitivo e l’importanza come strumento di rivalsa contro l’ignoranza e l’oblio.
L’immoralità del male: Benedetto Croce e la Scuola di Francoforte
Il nazionalsocialismo, diffusosi in Europa nella prima metà del ventesimo secolo, segna uno spartiacque nella storia, incide il proprio segno nell’uomo e travolge, con aberrante “razionalità irrazionale”, il sentimento comune. La negatività che pervade questo frangente storico diventa lampante e oggettiva, tanto da spingere lo stesso Benedetto Croce (1866-1952) a rivedere le sue posizioni hegeliane riguardanti il giustificazionismo della storia: se prima questa si giustificava da sola, permettendo che il male venisse considerato come un tassello essenziale del procedere dello spirito nella storia, con l’avvento di Hitler e Mussolini il pensatore neo-idealista rivede tale teoria. Parla, infatti, di razionalità dell’imperativo morale: è vero che la storia, per legge, si presenta come il compiersi di una razionalità infallibile ma, allo stesso tempo, se l’uomo va contro la propria coscienza morale, essa non può più giustificarne le conseguenze. L’idealismo incespica sotto il peso della realtà e si confronta con l’impossibile. Sarà poi Adorno (1903-1969), pensatore della Scuola di Francoforte, a concepire una filosofia nuova, non protesa alla razionalizzazione del reale ma alla demistificazione delle contraddizioni inconciliabili che lo pervadono. La perfezione del mondo si incrina, l’arte svela una frammentarietà senza precedenti. Anche Horkheimer (1895-1973) riconoscerà alcune incongruenze dell’uomo: dall’illuministica prospettiva di dominio dell’uomo sulla natura, alla dialettica autodistruttiva. E’ forse un’inclinazione naturale dell’uomo quella di divenire schiavo della società e dei suoi meccanismi, desidera la propria distruzione?
La guerra e la morte: “Orfeo ed Euridice” in Cesare Pavese
La Seconda Guerra Mondiale, ma anche la guerra in sé, nella sua natura più intima e astratta, è, quasi per definizione, l’emblema dell’irrazionale, del contrasto iperbolico, della negazione assoluta. Durante la guerra, più che in qualsiasi altro momento, l’uomo entra in una “doppia dimensione” in cui è difficile distinguere fra vita e morte, fra macabra realtà e finzione alterata. Chi entra in questo vortice non è più capace di uscirne. Cesare Pavese (1908-1950), considerato fra i maggiori intellettuali italiani del ventesimo secolo, riesce a spiegare perfettamente il significato di queste contraddizioni, interpretando il famoso mito classico di Orfeo ed Euridice. La vicenda, contenuta all’interno di Dialoghi con Leucò (1947), è narrata dai due personaggi Orfeo e Bacca, e presenta la più matura e realistica ragione che spinse il più grande musicista della mitologia greca a voltarsi verso la donna amata, perdendola per sempre. “(Bacca): Qui si dice che fu per amore. (Orfeo): Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio”. Il poeta ribadisce le proprie motivazioni, non banali e sdolcinate, ma crude e struggenti: “Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. […] Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue”. Orfeo sa che la morte cambia l’uomo fino alle radici, ed anche lui, d’altronde, non riesce più a vivere come prima. La spensieratezza, la gioia e il divertimento della vita lo abbandonano. L’effimero si scrosta dalla pareti della sua coscienza e ciò che ne rimane è un’essenza spossata e provata: “E voi godetela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. E’ necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno”.