Pòthos e saudade sono due termini che si traducono l’un l’altro
Ulisse e Calipso, Arnold Bocklin
I nostri due personaggi stanno entrambi osservando il mare. Piangono. Il primo è imprigionato su un’isola fatata, Ogigia, da sette anni. Il secondo sta navigando, rimpiange la sua amata e la sua terra. Nei loro cuori domina però lo stesso sentimento, un misto di malinconia e rimpianto, di nostalgia e senso di vuoto. Omero e i Greci lo chiamavano pòthos, la letteratura portoghese saudade.
La mancanza dell’amata in Grecia
Secondo Giulio Guidorizzi, pòthos rappresenta “il desiderio di una persona che non c’è e che talvolta non si potrà più avere. La prima attestazione di questo sentimento si trova nel pianto di Odisseo a Ogigia:
Calipso lo trovò seduto sulla riva del mare, con gli occhi umidi sempre di lacrime, e consumava la dolce vita sospirando il ritorno. Non gli piaceva più la ninfa Calipso. Di notte, suo malgrado, dormiva nell’antro profondo accanto a lei, non volendolo, e lei lo voleva. Ma di giorno su uno scoglio davanti al mare lacerava il suo cuore con gemiti e lacrime, e guardava verso il mare infinito.
L’assenza di Penelope strugge Odisseo, che rimpiange quei giorni perduti a rincorrere il vento, a chiederci un bacio e volerne altri cento. Chi però descrive questa mancanza in maniera ancora più suggestiva è Saffo nel fr. 96 V. Una delle ragazze ha lasciato il suo circolo per trasferirsi in Lidia, per sposarsi:
Ora splende tra le donne di Lidia,
come quando il sole scompare
e la luna dita di rosa
vince tutte le stelle. La sua luce sfiora
il mare salato
e i campi screziati di fiori,
gocciola la rugiada gentile,
germogliano le rose e i cerfogli teneri
e il meliloto fiorente.
Si aggira inquieta, ricorda,
e il desiderio della tenera Attis
le consuma l’anima lieve.
L’amore è legato alla mancanza dell’amata. Dopotutto, secondo il Simposio di Platone, Eros è figlio di Pòros e di Penìa, di Espediente e di Povertà. Eros è figlio di un’assenza, e questo vuoto desidera costantemente essere colmato. Senza la persona amata accanto ci sentiamo vuoti, spenti. E per cercarla, siamo pronti a fare di tutto; per Penelope, Odisseo ha rinunciato all’immortalità. Una vita eterna non poteva valere nulla senza l’amore di sua moglie.
La mancanza dell’amata in Portogallo
Secondo la BBC, saudade è la settima parola al mondo più difficile da tradurre. Anche tralasciando questa dubbia classifica, è impossibile non rendersi conto di che varietà di sensazioni esprima questo termine. È un ricordo nostalgico, il desiderio di rivivere qualcosa di perduto, è malinconia mistica. Antonio Tabucchi utilizza per tradurla il termine dantesco disio, inteso come senso di nostalgia per il passato che si accompagna alla speranza del futuro. Secondo Chico Buarque invece, un cantante brasiliano, Saudade é arrumar o quarto do filho que já morreu. Riordinare la stanza del figlio ch’è già morto.
Il legame della saudade con la musica portoghese e brasiliana è fortissimo. Si potrebbe dire che il sentimento della saudade è alla base del fado, o almeno così è per Amalia Rodrigues. Nella sua canzone Fado Portoghese, la cantante ha spiegato come per lei è nato questo genere musicale.
Il Fado nacque un giorno,
in cui il vento appena soffiava
e il cielo si fondeva col mare,
sulla murata di un veliero,
nel petto di un marinaio
che, malinconico, cantava.
Quest’uomo, come già faceva Odisseo, guardando il mare si riempie di ricordi. Ricorda la sua terra (Ah, che immensa bellezza, la mia terra, il mio monte, la mia valle), ricorda sua madre, ma soprattutto ricorda la sua amata:
Nella bocca di un marinaio
di un fragile veliero
muore la triste canzone
dice il risvegliarsi dei desideri
delle labbra che bruciano di baci
che baciano l’aria, e niente di più.
Come di pòthos, della saudade non ci si può liberare, perché è parte del sentimento amoroso. Possiamo solo averne la consapevolezza perchè dopotutto, la saudade si rivolge anche al futuro. Per quanto incerto e fumoso, è pieno di speranza. Arriva a cantare il brasiliano Vinicius de Moraes in Chega de Saudade che senza quest’ultima non può esserci speranza, e quindi non può esserci bellezza.
Azulejo nel quartiere dell’Alfama, Lisbona
La mancanza dell’Angola in Portogallo
Saudade non è un sentimento che riguarda solo l’amato o l’amata, ma anche una terra lontana ora abbandonata. La nostalgia per l’Angola, ex colonia portoghese, affiora nel libro Lo splendore del Portogallo di Antònio Lobo Antunes, pubblicato nel 1997.
Il libro è di fatto una raccolta di monologhi: nella prima sezione si alternano Carlos e la madre, nella seconda Rui e la madre, nella terza Clarissa e la madre. I tre fratelli dopo aver vissuto l’infanzia in Angola sono stati mandati in Portogallo a causa dei disordini indipendentisti, mentre la madre è rimasta in Africa.
Chi più chi meno, i tre fratelli rimpiangono la loro vita africana, pur essendo consapevoli che la società coloniale in cui vivevano sfruttava senza pietà i locali, trattandoli come bestie. Tremendo è il giudizio della nonna sugli africani:
Erano non una razza differente, ma una specie biologica distinta in grado fino a un certo punto di imitare le persone, ma senza che niente li accomunasse a noi.
Carlos è un meticcio. Né nero né bianco, vive lacerato tra queste due dimensioni che non possono dialogare. Sua madre lo disprezza, in quanto figlio bastardo, ma si ostina a cercare di educarlo come se fosse legittimo: Carlos ne soffre, “se fossi stato negro avrei potuto camminare scalzo senza che mi sgridassero, avrei corso più veloce degli altri, sarei stato più forte e a scuola nessuno mi avrebbe detto parolacce e picchiato”.
Rui è epilettico, coccolato dalla madre ma considerato una vergogna dalla nonna e dal resto della famiglia. Passa le giornate guardando il Tago e ripensando all’Angola, quando nessuno “mi impediva di sparare a pallini ai cani in cortile, senza Carlos che mi impediva di strangolare i piccioni, senza Carlos che mi impediva di essere felice.”
Anche Clarisse viene condannata dalla famiglia, per il suo comportamento dissoluto. Se da giovane usciva la sera con la creme dell’aristocrazia coloniale, ora a Lisbona è solo l’amante – due sere a settimana – di un ricco parlamentare. Anche lei rimpiange l’Angola, dove loro contavano qualcosa, mentre ora in Portogallo non sono più niente. Quello che rimane ora è solo un fortissimo odi et amo, una saudade distorta priva di amore e speranza:
Abbiamo finito per amare l’Africa con la stessa passione che prova il malato per la malattia che lo devasta o il mendicante per il ricovero che lo umilia, abbiamo finito per gradire di essere i negri degli altri e di possedere dei negri che siano i nostri negri, abituati alla violenza del clima e della gente e alla crudeltà della pioggia, a risolvere con una pallottola un disaccordo o un capriccio.
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