Qualora oggi si diffondesse la voce che la Costituzione avesse versato lacrime rosso sangue, non si faticherebbe a credere che la notizia sarebbe accolta con una fiducia ai limiti dell’untuosa servilità. Le motivazioni dietrologhe volte a giustificare il fenomeno, oscillerebbero tra la smaniosa ricerca di un altrove mistico da cui ottenere segni che possano guidare l’esperienza terrena, e l’alternarsi quotidiano della cronaca politica: una tragedia a sé stante degna di pathos e disperazione. Nessun assiduo frequentatore del Parlamento griderebbe certo al miracoloso ritorno dell’ideale di persona umana proferito da La Pira durante l’assemblea preliminare dell’11 marzo ’47, quando il progetto di Costituzione della Repubblica Italiana immaginava la persona come pietra angolare del nuovo edificio costituzionale in virtù di quella famosa parabola del Vangelo secondo cui: ‘Se costruisco sulla sabbia, la casa, per quanto solida, crolla; se costruisco sulla pietra, la casa, per quanto non solida, riesce a superare le intemperie e le tempeste’. Grave errore quello di chi ha affibbiato eccessiva robustezza ad un ideale pensato come titolare di intrinseca dignità, e soppresso per tutto contro dalla pesantezza di assetti giuridici e corpi sociali calati in un contesto inimmaginabile anche per le menti più sensibili e raffinate del tempo. Un errore costato caro, visto il crollo della ‘Costituzione umana’ e la mancata difesa delle lacrime e del sangue intellettuale che hanno permesso un progetto di rifondazione dopo il ventennio fascista.
Lacrime come quelle che scendono dal volto di 177 migranti dai corpi tumefatti e unti di sangue, costretti a rivivere l’incubo di un’ennesima fase di stallo nel porto di Catania a seguito del pugno duro del ministro dell’Interno e vice-premier Matteo Salvini che si rifiuta di autorizzare lo sbarco malgrado la scabbia, le torture e la presenza di donne e bambini. Lacrime contrapposte al sorriso ironico stampato sul faccione dello stesso ministro, che dopo aver tranquillizzato illo tempore i suoi followers di Facebook sulla natura di una barca alle sue spalle, lo ripropone nella diretta social in cui apre la lettera del Tribunale di Palermo che gli contesta il reato di sequestro di persona aggravato per il caso Diciotti. Resta il dubbio sulla modalità con cui avrà accolto la notizia della lettera minatoria recapitata al procuratore d’Agrigento Luigi Patronaggio, reo d’aver avviato le indagini. ‘Zecca sei nel mirino’, sono le parole che accompagnano la busta con un proiettile da guerra e lo stemma di Gladio, l’associazione stay-behind nata in Italia nel secondo dopoguerra per contrastare un’eventuale avanzata sovietica. Qualcuno potrebbe domandarsi com’è possibile delineare un quadro a tinte fosche rispolverando i tardi archetipi della Costituzione più bella del mondo che come un amuleto dovrebbe difenderci da ogni potenziale turbamento, e saremmo portati a rispondere seguendo due direttrici: il cambiamento della logica del potere e uno sfaldamento creato dall’espansione della psicologia del social. Il potere, come ripetutamente fa notare nei suoi scritti il filosofo francese Michel Faucault, non va pensato in un’ottica gerarchica come si faceva dai tempi di Hobbes, ma deve oltrepassare il modello del sovrano che presuppone un comando dall’alto, e il principio della proprietà secondo cui si pensa al potere come un qualcosa che si possiede. Il potere è un reticolato costituito dal principio dell’azione sull’azione. Il comportamento dell’uno comporta un’ influenza sul ventaglio delle scelte di un altro soggetto. Da questa prospettiva si denota come l’indignazione che pervade il paese al momento della scoperta di raggiri e nefandezze sia spesso sterile ed inefficace, nella misura in cui non prevede un’analisi strutturalista che riporti nella giusta collocazione i pezzi del puzzle. Per vent’anni la scena politica è stata occupata da corrotti e da strateghi dell’inabissamento esperti nel trasformare le procure in banchi di nebbia, nascondendo nella gobba un metodo restio a scomparire: quella mafia di accordi, cricche, mediazioni, opposta alle logiche spregiudicate degli attacchi frontali alle istituzioni democratiche. E non si tratta certo di una cupola contrapposta all’elettorato, ma rappresenta la quintessenza di una società civile dedita agli accordi sottobanco per trarre un piccolo vantaggio personale. D’altra parte qualcuno avrà pur dovuto contribuire virtuosamente alla loro ascesa permeata dalla ciclicità delle magagne che interessano soggetti diversi ma legati da un’omogeneità di condotta. Un’analogia come quella che ha tenuto banco in questi giorni, rappresentata dall’associazione Berlusconi-Salvini, entrambi rei d’aver fronteggiato faccia a faccia la magistratura. Berlusconi dopo averla strenuamente difesa dalle accuse del Brasile sul caso della estradizione di Battisti, la critica pesantemente quando si ritrova coinvolto personalmente; Salvini appone la sua posizione di eletto dal popolo a fronte del potere giudiziario dopo la lettera del Tribunale di Palermo. La tendenza che emerge è una continua lotta all’interno tra politica e magistratura, pubblico contro privato, impresa contro impresa, partito contro partito, alee di un partito contro vertici e via discorrendo. Sintomi della naturale tendenza alla creazione di una sfera personale frapposta a quella altrui, adagiata su un terreno magmatico e mutevole a seconda della circostanza: un giorno contro la magistratura, l’altro contro il leader di un partito della medesima coalizione. È questo l’effetto di un veleno in circolo già da tempo ma adesso in grado di far sentire maggiormente i propri effetti: l’assioma che il senso d’appartenenza debba necessariamente coincidere con il dovere d’intolleranza nei confronti del diverso. Ecco il seme della discordia che trova il suo naturale terreno nei social da cui trae anche un antidoto a se stesso. Da un lato c’è la presenza di un mondo virtuale in cui emerge il buonismo massificante del politicamente corretto in grado di sconfiggere la potenza dell’indignazione. La difesa di qualunque minoranza non è sintomo di sensibilità e acculturazione, ma diventa specchio della tendenza opportunistica e della faziosità d’occasione che anima tanto i comuni mortali quanto i rappresentanti di stato, persi nella vacuità e nell’immediatezza non ponderata delle piattaforme social. Ciò che fuoriesce è una ben mistificata intolleranza verso chiunque travestita da ossequio nei confronti di opinioni differenti.
In questo modo si alternano i faccioni provocatori dei leader di partito e dei membri del Governo che trasformano il dibattito politico in polemichetta da tastiera, trovando poi l’antidoto vincente alle calunnie altrui nell’innalzamento di bastioni difensivi costituiti dai fedelissimi tenuti insieme da un reticolato di favori e mutuo soccorso, come farebbe un ragazzino di scarsa intelligenza. Il risultato della spettacolarizzazione del normale e della normalità della spettacolarizzazione, si riscontra nella svalutazione della indignazione. La lamentela di tutto ci allontana dalle problematiche effettive e la spersonalizzazione di tragedie come quella dei migranti trasformati in numeri e carne da macello diventa banale, alla stregua della banalità di una frase scandalizzata persa nell’ingorgo del circuito.
Pierfrancesco Albanese