«La frase d’amore, l’unica, è: “Hai mangiato”?»
Non mangiare fuori dai pasti, non guardarti allo specchio quando attraversi i corridoi e le stanze della casa, controlla che le ossa dei polsi siano sempre in fuori come te li ricordavi dal giorno prima, allenati a parlare mentre trattieni il respiro, curva la schiena così che le clavicole risaltino, fai dei piccoli saltelli e assicurati che ti si vedano le ossa dello sterno, cerca di uscire di casa negli orari in cui sai di avere fame e, quando sei a letto, mettiti a pancia in giù per sentire il bacino spigoloso sporgere. Assicurati di essere “bella”, fenomenale come la filologia di Hegel, in questa esatta maniera. Altrimenti vuol dire che semplicemente non lo sei.
L’incubo di guardarsi through the looking glass
Tutti hanno, almeno una volta nella vita, sofferto di un disturbo alimentare. Può succedere da un momento all’altro, che ti scatti quell’interruttore del “mi faccio schifo”, con la forchetta rimpinzata di cibo ancora levata a mezz’asta. L’interruttore che ti fa afferrare con violenza quasi ferina quei fianchi che guardi con odio, che ti fanno vomitare perché sono troppo larghi. Quello che ti fa andare in cucina, che ti fa prendere un pezzo di pizza rossa (quella che mamma ti compra calda al forno sotto casa), che, mentre mastichi con golosità, ti urla nelle orecchie di sputarlo nel secchio perché il gusto lo hai già assorbito e non ti serve ingoiare il boccone. Quell’interruttore che ogni volta ti riga una guancia con una lacrima quando ti fai la doccia e rimani lì, mentre ti abbracci con calore inaudito, circondandoti con le tue sole braccia, e ti chiedi perché? Perché non sei normale? Come tutte le altre? E fai continuamente giri su te stessa, mentre l’acqua bollente scroscia, attutisce i tuoi mormorii di disgusto e appanna lo specchio. Quel maledetto specchio che è ovunque in casa, che ti osserva come il Grande Fratello (di Orwell, per carità di Dio) e che ti mostra, come se fosse una lente d’ingrandimento, i buchi sulle cosce, i polpacci per niente fini, il braccio che sembra un arrosto, il ventre sempre gonfio. E, sistematicamente, pensi che sia colpa di quella pasta al pesto che hai mangiato la sera prima. Cavolo, se era buona però. Ma una consolazione c’è: anche i più grandi scrittori erano complessati come te.
No stress e Renée Vivien: due entità incompatibili
E di complessi, insomma, quelli prima di noi ne erano pieni: tra guerre, carestie, malattie pandemiche e crisi finanziarie. Quasi ci viene da rimpiangere il XIX o il XX secolo. C’è da dire che, però, anche lo stress è rimasto invariato nel corso del tempo. È un maledetto tarlo onnipresente, l‘evergreen del carattere di ognuno, una sorta di accessorio inscindibile dall’outfit del giorno, come la maglia metallica e Versace. I personaggi che, nelle loro storie indimenticabilmente travagliate, hanno aggiunto alla collezione di “mainagioia” i disturbi alimentari sono innumerevoli. Franz Kafka, Virginia Woolf, Natalia Ginzburg, Renée Vivien, potrebbero tutti aggiungere al loro CV la voce: sopravvissuti (si fa per dire) all’anoressia nervosa. Con la differenza, dai tempi odierni, che non mangiare non è per niente chic, non determina uno status quo e non è neanche minimamente più rivoluzionario, anzi è abbastanza mainstream. Prendiamo un esempio, Renée Vivien, poetessa “maledetta” di fine Ottocento, morta di pleurite sulla soglia dei 3o anni, non era mica attenta alla linea per potersi fare il bagno nella Senna e magari essere ritratta, per caso, in un dipinto di George Seurat. Si ubriacava allo stremo, digiunava per giorni interi, tentò diverse volte il suicidio e i debiti che aveva contratto l’avevano condannata ad una morte metaforica. Renée si era ammalata di anoressia nervosa e volontariamente aveva scelto il rifiuto del cibo, di sé, della vita, di tutto. E sicuramente non era nervosa per l’esposizione del corpo dell’Olympia di Manet al Salon, paragonabile ad un “angelo” sulla passerella di Victoria’s Secret.
Per ogni Lady D c’è un principe Carlo
Ancora non è scientificamente provato, ma per ogni Lady D, donna o uomo che sia, la cui giornata sorride solo se accompagnata da un bel piatto di carbonara, esiste un principe Carlo, uomo o donna che sia, che almeno una volta nella vita la definirà “un po’ cicciottella” e le farà rimpiangere di aver fatto la scarpetta col sugo. A volte, è il ragazzo che ti piace che ti confronta con quelle gazzelle delle sue ex. Altre volte, è tuo padre che ti vede con dei jeans attillati e ti fa la fatidica (ed imperdonabile) domanda “non è che ti stanno un po’ stretti?”. Altre ancora, sono i social, i post, le pubblicità, i film e il mondo intero. Ma più spesso la causa della propria malattia mentale, che diventa sociale, è sé stessi. Mi chiedo inevitabilmente perché Virginia Woolf e Franz Kafka credevano che nel loro stomaco albergasse un mostro infernale, brontolante e bramoso nella sua continua pretesa di nutrimento. Non sapevano che ci sarebbe stato un mondo intero ad adorarli per qualunque forma prendessero, perché nelle loro parole erano già perfetti così. Eppure… E poi, anche Oscar Wilde, l’estetico dandy per definizione, aveva delle insicurezze e si vedeva imperfetto. E Gabriele d’Annunzio? Così spudorato senza le sue costole per auto-compiacersi, avrà pure avuto qualche difetto e paura da nascondere. Che poi, che ci sarà mai di così bello nell’abbracciare l’anoressia o la bulimia come annientamento glossy, alla moda?
La me di qualche anno fa che, dopo pranzo e cena, si specchiava stanca nell’acqua sporca e tersa del gabinetto, questa volta, si avvale della facoltà di non rispondere.