Scopriamo uno dei più grandi filosofi del 900′ attraverso il film “Balla coi lupi”: ecco l’indeterminatezza della traduzione di Quine.
John Dunbar, il protagonista del film Balla coi lupi, nel suo avamposto dimenticato si trova a dover comunicare con gli indiani. La lingua è completamente sconosciuta. Come fare? Quine sa indicargli la strada, ma allo stesso tempo deve dirgli che ci sono infiniti modi per tradurre una lingua.
Una traduzione radicale
Immaginiamo di ritrovarci catapultati in un’isola nel bel mezzo del Pacifico: di fronte ci troviamo una popolazione di indigeni che parlano una lingua sconosciuta. Per sopravvivere dobbiamo imparare a comunicare con loro. Come fare? Questo esempio è quello con cui Quine, uno dei filosofi americani più grandi del 900′, introduce il problema della traduzione radicale, ovvero la traduzione tra due lingue che non hanno nulla in comune tra loro. Affronta ciò in Parola e oggetto, una delle sue opere più importanti. Tradurre è possibile, ma esistono infiniti modi per farlo. Proprio così, questa è l’indeterminatezza della traduzione, la tesi di Quine. Addentriamoci in questo mondo e vediamo come questo sia possibile, partendo dal film Balla coi lupi.
Balla coi lupi e John Dumbar
Una traduzione radicale è anche quello che si trova a dover fare il militare John Dunbar, protagonista in Balla coi lupi, film uscito nel 1990 e creato dal regista Kevin Costner. Ci troviamo nel 1863 in America: il paese è sconvolto dalla guerra di secessione. John è un ufficiale dell’esercito unionista che, a causa di particolari circostanze, si ritrova ad essere acclamato come un eroe. Gli viene dato il privilegio di decidere dove trasferirsi e, contro ogni previsione, sceglie un isolato avamposto nel bel mezzo delle praterie del Nebraska. Dopo un lungo trasferimento a cavallo raggiunge il posto, dove viene lasciato solo. A fargli compagnia ci sono solo Cisco, il suo cavallo, e Due Calzini, un lupo che ogni tanto va a trovarlo. La sua solitudine e la scelta di essere lontano da tutto e da tutti riflettono anche i suoi nuovi sentimenti di avversione verso la guerra e la società che l’ha prodotta. La zona è frequentata anche da tribù indiane, in particolare da quella Sioux. Presto avviene il primo incontro di John con gli indiani: questo avvenimento cambia per sempre la sua vita in quanto rimane affascinato dalla loro cultura e se ne innamora. C’è solo un ostacolo: la loro lingua che per lui è completamente sconosciuta.
Un problema di traduzione
Vi è per lui la necessità di imparare a comunicare con loro. Tutto ciò che può fare all’inizio è partire dalle parole più semplici, quelle riguardanti cose che può indicare con un dito o mimare con il corpo. Questo è quello che fa e partendo da poche parole riesce alla fine ad essere integrato completamente nella loro comunità linguistica. Alla fine si innamora talmente tanto della vita indiana che abbandona il suo avamposto e si unisce a loro. Il culmine di ciò è il suo matrimonio con Alzata di Pugno, una donna di pelle bianca adottata dagli indiani quando era piccola. Alla fine l’esercito, scoperto che John è passato dalla parte degli Sioux, lo arresta. Riuscirà in seguito a scappare solo grazie all’aiuto dei suoi compagni. A quel punto però lui e tutta la tribù sono in pericolo. I Sioux, quindi, sotto la spinta di John, spostano tutto l’accampamento e si mettono in salvo.
Tradurre è possibile
Questa è la trama del film. Come funziona insomma una traduzione? Abbiamo visto che, soprattutto nel caso di una traduzione radicale, l’unico modo che abbiamo è quello di partire da quanto abbiamo in comune con gli altri interlocutori: l’ambiente in cui siamo. Proprio per questo sia nell’esempio dell’isola di Quine, sia nel caso di John, si deve partire dagli enunciati di osservazione. Queste sono le frasi e le parole che si riferiscono direttamente agli oggetti del mondo che vediamo. Immaginiamo, seguendo un esempio di Quine, che John si trovi in una foresta con gli indiani. Ad un certo punto vedono passare un coniglio e uno di loro esclama “gavagai!”. John può allora pensare che “gavagai” in indiano significhi “coniglio”, e ottenere così la traduzione di una parola. Insomma tradurre è possibile, ma per farlo è necessario partire da una base comune che non può che essere il mondo nel quale viviamo sia noi che l’indiano.
Un problema con gavagai
Fin qui tutto bene? No. Partire dagli enunciati di osservazione è l’unica possibilità che abbiamo, ma pensiamoci, siamo sicuri che “gavagai” per l’indiano significa proprio “coniglio”? Nella nostra osservazione del mondo entrano in gioco tutta una serie di fattori che sono tutt’altro che oggettivi. Se mentre io ho visto un coniglio, l’indiano si fosse riferito invece a un leggero movimento d’erba che io non avevo notato? O si sia riferito a un parassita dei consigli che solo lui può riconoscere? Ciò che vediamo va sempre interpretato, e qui entrano in gioco tutta una serie di sistemi di concetti propri della comunità indiana che non può cogliere il linguista (John). Tra questi vi sono tutte le osservazioni passate che contribuiscono a formare un concetto come quello di “gavagai”, ma sopratutto c’entra la comunità linguistica. In realtà non siamo neanche sicuri che presso gli indiani esista una parola per “coniglio”, è un qualcosa che John deve presupporre.
Indeterminatezza della traduzione
Pensateci: quando nasciamo noi siamo già immersi dentro il linguaggio. Ci troviamo forniti di parole e la comunità ci insegna ad assegnarle alle giuste cose nel mondo. Questo imparare continua a perfezionarsi nel corso della vita e forse non finisce mai. Ciò finisce con il determinare i nostri concetti e le nostre parole, più di quanto possa fare il mondo naturale. Il linguista, invece, non ha accesso a tutto questo. Lui deve partire da quanto vede in comune con l’indiano perché non ha alternative, ma allo stesso tempo l’indiano si approccia a ciò che vede attraverso tutti questi preconcetti formati nel corso della sua vita. Alla fine il linguista riuscirà a tradurre, ma il fatto è che la sua traduzione non sarà mai l’unica possibile. Se mandassimo là un altro linguista e gli chiedessimo di fare la stessa cosa e sicuramente se ne uscirebbe con un manuale di traduzione diverso. Non che ci sono traduzioni sbagliate, anzi sono tutte corrette. La traduzione è possibile ma non se ne dà mai una sola. Questa è l’indeterminatezza della traduzione di cui parla Quine.
Non conosco nemmeno la mia lingua
Cosa significa questo? Che John riesce alla fine ad imparare la lingua dei Sioux, ma ne scopre solo una delle infinite possibili traduzioni. In realtà anche ognuno di noi non finisce mai di imparare neanche la propria lingua madre. Tutto è in continua evoluzione. Questo è quello che ci dice Quine, che riscontriamo sia in Balla coi lupi e sia in noi stessi.