Opera, autore e copyright: ecco come questi concetti si applicano alle origini della letteratura italiana

Al giorno d’oggi ormai tutti sappiamo cosa si intende per copyright: colui che realizza un qualsiasi prodotto, ne è il titolare e ne detiene i diritti derivati, definiti appunto “diritti d’autore”. Ma è sempre stato così? Per noi oggi è normale vedere sui prodotti il seguente simbolo © che identifica un qualsiasi prodotto “protetto” dai … Leggi tutto

Festa di San Valentino: ecco quando il nostro calendario fa i conti con quello pagano

Il 14 febbraio si festeggia San Valentino, tradizionalmente conosciuta come “festa degli innamorati”. Scopriamo quali sono le origini di questa festa tornando indietro di circa 1500 anni.  Come molti ben sanno, il nostro calendario attuale, in fatto di festività è di impronta fortemente cristiano cattolica. Siamo in Italia, patria di Roma e della Chiesa ed … Leggi tutto

Bambini, fate attenzione all’Ickabog: una favola moderna per bambini e adulti

L'Ickabog

Durante la pandemia, sopraffatti dalla noia e dall’impossibilità di uscire, in molti si sono dati alla pulizia, rispolverando vecchi ricordi fisici e metaforici. Così ha fatto anche J.K. Rowling, riportando alla luce un suo vecchio racconto.  “Harry Potter” sono le prime due parole che ci vengono in mente quando sentiamo il nome Rowling: è lei la mamma del maghetto … Leggi tutto

I Nativi 145 anni fa venivano confinati nelle riserve: Faber ci aiuta a non dimenticare

31 gennaio 1876: gli Stati Uniti ordinano ai Nativi di ritirarsi nelle riserve. Da quella data sono passati 145 anni eppure questo è un tema ancora poco conosciuto. Proviamo a raccontare qualcosa di loro anche attraverso la musica di un grande cantautore italiano, Fabrizio De Andrè. 

Il quadro rappresenta il giorno del massacro di Sand Creek

Riserva. Genocidio. Sand Creek. Ricordo qualche tempo fa un cartellone pubblicitario dalla grafica molto semplice: vi era disegnato di profilo un uomo dalla pelle ambrata e dai tratti somatici tipici dei Nativi Americani. Portava in testa una sorta di copricapo e al collo una collana di pietre. Sul manifesto c’erano scritte poche parole: Loro hanno subito l’immigrazioneora vivono nelle riserve. Tralasciando la profonda strumentalizzazione con cui si faceva riferimento alle popolazioni indigene americane o la questione politica, questa è la prima immagine che mi viene in mente quando sento la parola Nativi. Penso che sulla questione ci sia molta disinformazione e che quasi non si sappia a che cosa ci si riferisca quando si sentono nominare. Non tutti sono storici o appassionati ma ritengo che, anche per semplice cultura personale, sia importante avere qualche informazione a riguardo. Anzi, proprio perché non siamo tutti storici, oggi cercherò di raccontare una parte della loro storia invitandovi ad ascoltarla: Fiume Sand Creek. 

Dopo 150 anni dal massacro di Sand Creek, il governo americano dedica una lapide ai caduti

La colonizzazione

1492 data della scoperta dell’America. Qualsiasi bambino o ragazzo in età scolare è in grado di dirvi esattamente di cosa si tratta. Ad essere sincera mi sembra quasi di riuscire ancora adesso qualche compagno che, ripendo a pappagallo la lezione, afferma: nel 1492, Cristoforo Colombo, dopo essere partito dal porto di Palos pochi mesi prima, cercando di raggiungere le Indie arrivò invece nel Nuovo Continente. Questa storia la sappiamo tutti ed è la storia del viaggio di Colombo: cercando una nuova via per le Indie infatti, quasi per errore è stata scoperta l’America. Da questo momento inizia l’età moderna. Da questo momento iniziarono le guerre coloniali tra le potenze più forti per accaparrarsi, metro dopo metro, il dominio sui nuovi territori. Per molti anni così l’America del Nord rimase legata economicamente all’Inghilterra e poi si rese indipendente. Queste cose le so dall’età 11 anni. Però c’è qualcosa che nessuno mi aveva raccontato e che forse non mi ero neanche chiesta: Chi c’era in America prima dell’arrivo di Cristoforo Colombo?

I Nativi Americani

Indiani d’America e Pellerossa sono alcuni dei nomi con cui si fa riferimento alle popolazioni che vivevano in America prima dell’arrivo degli europei. Questi nomi, dati dal colore della loro pelle e dal fatto che in un primo momento Colombo era certo di essere arrivato nelle Indie, sono errati. Il nome adatto per definire queste popolazioni è Nativi Americani. Queste popolazioni, molto diverse tra loro, erano divise in tribù e soprattutto nel Sud e nel Centro America hanno dato origine a vere e proprie civiltà come quelle dei Maya e degli Aztechi. Nel Nord invece, rimasero popolazioni seminomadi che si spostavano a seconda delle stagioni: il clima infatti è più rigido rispetto al sud e per questo, probabilmente, non si sono mai sviluppate vere e proprie civiltà stabili. Queste popolazioni, sebbene al tempo fossero più arretrate rispetto a quelle europee da un punto di vista tecnico, avevano una struttura politica ben organizzata ed erano molto sviluppate anche da un punto di vista culturale.

L’arrivo degli invasori

L’arrivo delle popolazioni europee determinò la fine delle grandi civiltà precolombiane: purtroppo per loro c’era poco da competere con la polvere da sparo. Acciecati dalle ricchezze che poteva ricavare sfruttando i territori incontaminati del nuovo continente, gli invasori non si fecero scrupoli. Così i nuovi arrivati, considerando questi popoli inferiori, occuparono le loro terre, rubarono le loro ricchezze e li sterminarono. I pochi rimasti furono costretti a vivere nelle riserve, cioè territori che ai bianchi non interessavano a causa della loro infertilità e dell’esigua presenza di minerali nel sottosuolo. L’ordine definitivo fu dato proprio il 31 gennaio del 1876. Si stima che tra il 1492 e il 1890 sono stati uccisi tra i 70 e i 115 milioni di Nativi. Questo dato naturalmente comprende sia i morti a causa di guerre e battaglie, sia i morti a causa di malattie importate dagli invasori.

I Nativi non si arrendono

Seppur numericamente inferiori e in possesso di tecniche meno sviluppate rispetto a quelle europee, i Nativi non si arresero davanti agli invasori. In svantaggio dal punto di vista militare e tattico, le tribù combatterono valorosamente ma non si può parlare di vere e proprie battaglie, quanto più di massacri. Interi contingenti militari armati, contro uomini a cavallo con archi e frecce. Contro uomini il cui primo obiettivo era difendere le donne e i bambini delle loro tribù. Purtroppo oggi di loro ci rimane solo il ricordo ma finché ci sarà qualcuno disposto a raccontare la loro storia, la loro memoria non svanirà.

Fabrizio De Andrè

Qualcuno lo ricorda come un cantautore, qualcun altro come un poeta. Egli però nelle sue canzoni è riuscito a dare voce agli emarginati, a coloro che stavano ai bordi della società e a coloro di cui si conosceva poco, ma di cui si doveva conoscere. Il decimo album di De Andrè esce nel 1981 e Fiume Sand Creek è la terza canzone dell’album. Questo brano fa riferimento al massacro del 29 novembre 1864 quando una milizia inglese di 700 uomini attaccò una tribù di circa 600 nativi americani. Lo scontro si verificò nella località del fiume di Sand Creek, in Colorado, dove c’era un accampamento di Cheyenne Meridionali e Arapaho che avevano già stretto accordi con il governo statunitense. Al momento della rappresaglia gli uomini erano a caccia e solo in pochi erano rimasti a difendere l’accampamento: appena i Nativi si rendono conto di essere attaccati issano bandiera bianca, ma servì a poco. La “battaglia” si concretizzò infatti nello sterminio di donne e bambini, per un totale di quasi 200 vittime.

Fiume Sand Creek

De Andrè racconta la vicenda attraverso gli occhi di un bambino ma i riferimenti storici sono inequivocabili. La semplicità del linguaggio è accompagnata dal tema preponderante della natura, alla base della vita di queste popolazioni.

Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura

sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura. 

Fin dai primi due versi si racconta come la battaglia sia finita e, a partire dalla fine, si torna indietro a narrarne qualche momento.

Fu un generale di vent’anni

occhi turchini e giacca uguale: 

Il nome del generale è Chivington (ma non tutti sono d’accordo con questa interpretazione),

che guidò l’intero attacco. Successivamente invece si racconta di come i nostri guerrieri fossero sulla pista del bisonte, cioè a caccia e quindi troppo lontani per proteggere il villaggio. Al bambino arriva alle orecchie nel pieno della notte, il rumore degli zoccoli dei cavalli al galoppo e delle urla e chiede al nonno se si tratti di un sogno. Il nonno disse sì. Il bambino crede alle parole del nonno:  il sangue e le ferite appaiono solo come un sogno vivido, troppo vivido per essere vero. Anzi, il sangue non è sangue, sono solo stelle rosse. Ma non era un sogno e ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek. E per quel bambino è solo un sogno, i suoi amici dormono ora, ma noi non possiamo dimenticare che non è così

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Infanticidio: quella che per noi è la tragedia più grande, ieri era recitata a teatro

Anche se ormai il telegiornale non sembra essere altro che una rassegna di brutte notizie, puntuali ogni sera ci sediamo in poltrona davanti al televisore. E se invece per “assistere in diretta” a queste tragedie andassimo a teatro? “Nella vita non esistono tragedie paragonabili alla morte di un bambino. Le cose non tornano mai com’erano … Leggi tutto

A causa del Coronavirus siamo diventati un po’ più pessimisti: chiediamoci cosa ne direbbe Leopardi

Giacomo Leopardi

L’Italia è di nuovo divisa in fasce di colore: incertezza, paura, ma sopratutto pessimismo, è quello che si respira. Un pessimismo globale, diffuso e… quasi cosmico, proprio come quello di Leopardi. O forse no.

La tempesta di neve, William Turner
Per dare una forma al pessimismo leopardiano, spesso si è utilizzato questo quadro di Turner, pittore romantico che visse tra il XVIII e il XIX secolo.

Da quando il virus è dilagato nel nostro paese, ognuno ha dovuto fare i conti con un nemico invisibile che ha condizionato la nostra vita in maniera estrema ed impensabile. Se circa un anno fa, il sentimento comune era quello della speranza, del “ce la faremo”, oggi purtroppo di questo incubo non se ne vede una fine. Coloro che dovrebbero essere esperti, hanno opinioni e pareri discordanti e anche la Speranza, da sempre ultima dea, ci sta un po’ abbandonando. La crisi economica del paese si fa sempre più grave e a questa si aggiunge anche la crisi politica: l’ottimismo ha lasciato spazio ad un pessimismo diffuso e ad un sentimento di sconforto. Proviamo quindi ad abbandonare le letture scientifiche e politiche e a dedicarci a quelle letterarie: Leopardi sembra un buon suggerimento.

Leopardi, noi e il pessimismo

Forse, pensandoci bene, paragonare il pessimismo di oggi al pessimismo leopardiano è un po’ un azzardo. Siamo sicuri di essere abbastanza pessimisti da essere paragonati a Leopardi? Oppure siamo sicuri che in fondo Leopardi, non stesse un po’ esagerando? In fondo durante la vita di Leopardi, il resto del mondo stava, tutto sommato, abbastanza bene: non si trovava nel bel mezzo di una pandemia e credo di poter affermare che la classe politica dirigente fosse decisamente migliore della nostra. “Suvvia Giacomocos’hai da lamentarti ? I problemi con Silvia non sono ancora iniziati e nel 1823 (anno in cui egli inizia a scrivere le Operette), hai appena 24 anni…” Eppure, già allora, la vita del poeta era tanto tormentata da portalo alla stesura delle Operette Morali, storielle che, con ironia, descrivono la situazione terribile in cui verte l’uomo. Forse la vera differenza tra noi e Leopardi è che per lui era la sua vita stessa il problema, mentre per noi l’intero contesto generale… però in fondo, quando è la nostra vita che non va, non sembra per caso che, nonostante il contesto buono, vada tutto male?

Il Leopardi delle Operette Morali

Nel dicembre del 1823 si fa decorrere il suicidio poetico di Leopardi, ossia la sua decisione di non scrivere più in versi. Le Operette Morali sono infatti delle storielle in prosa o dei dialoghi che chiamano in causa i personaggi più svariati. L’idea leopardiana di fondo? La vita è un male e lui lo sa, e proprio perché si è reso conto di questo, è infelice. Ma gli uomini non devono saperlo, loro devono credere che sia un bene, che ci sia speranza: vivere se no, non avrebbe più senso. La riflessione profonda che accompagna l’analisi di Leopardi è che l’uomo è infelice e questo è un dato di fatto. Durante la sua opera cerca risposte a questa infelicità come nel Dialogo di un fisico e di un metafisico. 

Dialogo di un fisico e di un metafisico

Questa storiella ha per protagonisti un fisico e un metafisico. Il fisico annuncia di aver scoperto il segreto per vivere a lungo, ma il metafisico obietta che una vita lunga non è sinonimo di vita felice: ci sono dei giorni belli e dei giorni brutti, descritti metaforicamente come sassolini bianchi e sassolini neri. Il sassolino più nero di tutti è quello del giorno della nostra morte eppure, piuttosto di morire subito (e porre fine alla sofferenza), gli uomini sarebbero disposti a vivere dei giorni nella noia più totale. La felicità dipende dalle nostre esperienze e la verità è che gli uomini si stancano di una vita tutta uguale. Al di là di ogni problema economico e politico, la verità è che quello che ci pesa più di ogni altra cosa in questo periodo, è l’impossibilità di fare nuove esperienze, di fare quello che volevamo come lo facevamo prima: ci stiamo stancando di una vita tutta uguale.

Dialogo di Plotino e Porifirio

Per esemplificare fin dove arrivi il pessimismo di Leopardi, penso che sia questa l’operetta più adatta. I protagonisti sono Plotino e Porfirio: il primo è un filosofo platonico avverso al suicidio, il secondo invece è lo scettico, l’uomo malinconico e teorico del suicidio. Porfirio e Plotino sono però amici e la storia inizia proprio con Porfirio che comunica a Plotino che ha deciso di suicidarsi. Plotino ribatte chiedendo all’amico di discuterne, per cercare di fargli cambiare idea. Inizia così un acceso dibattito in cui Porfirio definisce il suicidio come un atto naturale e dovuto poiché la sua vita è infelice e per non vivere una vita infelice, suicidarsi è un suo diritto. Plotino non riesce ad essere convincente quanto l’amico e le sue argomentazioni non sono così brillanti: deve accettare quindi la sua morte. A Plotino non resta che la tristezza, non determinata dall’aver perso la discussione, ma di aver perso l’amico. Eppure, alla fine, Porfirio non si suicida: farlo sarebbe un mero atto egoistico. L’amico ha perso contro di lui ma, proprio perché ha perso, ha vinto.

Noi, il pessimismo e Leopardi

Ci ho pensato un po’: Leopardi non stava esagerando, anzi, la sua vita era difficile. Difficile quanto la nostra? Non lo so ma il dolore degli altri è sempre dolore a metà. La vita di Leopardi è stata caratterizzata da gravi problemi a livello fisico fin dalla più giovane età: a 17 anni era affetto da una gravissima forma di malattia reumatica alla quale si aggiungono problemi a livello polmonare e neurologico, al punto che a 18 anni era convinto di star per morire. La situazione non migliora con il passare del tempo ed egli morirà il 14 giugno 1837, all’età di 42 anni, dopo aver passato la maggior parte della sua vita affetto da malattie croniche. Non ha avuto figli a cui lasciare un’eredità e l’indiscusso successo odierno, non è per nulla specchio della popolarità di cui godeva il giorno dopo la pubblicazione di ogni sua opera. Anzi, per fare un esempio, le Operette Morali sono state così apprezzate dalla sua famiglia che il padre stesso del poeta si è premurato di lamentarsene pubblicamente.

Eppure…

Eppure, in questo momento a me non viene in mente nessun altro autore così attaccato alla vita come Leopardi. Il suo pessimismo derivava dal vedere le cose con chiarezza e nitidezza: non vedeva via d’uscita per la sua situazione. Tuttavia nel Dialogo di Tristano e di un amico, operetta a conclusione della raccolta, vi è la consapevolezza che la sua visione del mondo sia la meccanica conseguenza delle sue infermità fisiche. Egli però, pur conscio della sua situazione, sprona il lettore: in questo sta tutto il suo attaccamento alla vita. Il Dialogo di un fisico e di un metafisico si conclude così: “Ma in fine, la vita debb’esser viva, cioè vera vita; o la morte la supera incomparabilmente di pregio.” In questa citazione io non leggo un inno alla morte, al lasciarsi andare, ma un inno alla vita, degna di essere vissuta. Invece il Dialogo di Plotino e Porfirio si conclude così: “E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quest’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ameranno e ci ricorderanno ancora.” In questo finale leggo, ancora una volta, speranza: non sappiamo quanto durerà e chi ci lascerà, ma noi possiamo ricordarli e in questo sta tutto il nostro potere.

Operette Morali
Terza stampa delle Operette Morali di Giacomo Leopardi, uscite nel 1835 a Napoli presso l’editore Saverio Starita (cultura.biografieonline.it).

Per concludere

Le Operette Morali sono una raccolta iniziata nel 1823/1824, che impegneranno il poeta almeno per i quattro anni successivi, in cui egli non scriverà che in prosa. La prima edizione viene pubblicata però nel 1827 ed è ricordata come Edizione MilaneseCome accennavo precedentemente non riscosse molto successo e il padre stesso del poeta la considerò una vergogna per l’intera famiglia. Eppure, a dirla tutta, Giacomo aveva pubblicato solo le operette meno sovversive: il poeta infatti lasciò fuori dalla raccolta le ultime scritte, troppo desolanti per incontrare l’apprezzamento dei lettori. Successivamente, nel 1832, Leopardi cercò di vincere a Firenze il premio bandito dal Gabinetto di Viesseux, che premiava la miglior opera dell’anno, sempre presentando le Operette. Questo riconoscimento gli avrebbe fornito oltre che un po’ di notorietà, un notevole beneficio economico ma le cose non andarono come il poeta aveva sperato. Uno dei fondatori di Viesseux infatti, non vedeva di buon occhio Leopardi e così il premio non gli fu assegnato. La verità era che Leopardi era portatore di una visione del mondo così catastrofica da offendere molti degli intellettuali fiorentini. Le successive edizioni sono quelle uscite a Firenze e a Napoli nel 1834 e nel 1835, l’ultima delle quali incontrò anche l’opposizione della censura. Le edizione successive sono posteriori alla morte del poeta e le prime tre, di cui rimangono ancora copie circolanti tutt’ora, hanno un altissimo valore economico.