Non si può mai stare tranquilli. Non è però solo questo quello che insegna la triste fine di Abraham Lincoln. Una vita decisamente importante che è giusto ricordare.

Non è difficile immaginare la figura del sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, Abraham Lincoln, italianizzato Abramo. Una folta barba su un viso squadrato adornato da un singolare cappello a cilindro, simbolo per eccellenza di questo uomo. La sua vita ha segnato un punto cardine nella storia degli U.S. e ancora oggi il suo nome rappresenta l’idea tipo del presidente.
GLI INIZI
La vita di Lincoln è segnata da un inizio non facile. Nacque nel Kentucky, nel febbraio 1809 in una capanna di agricoltori di umili origini. Il padre Thomas era un falegname, mentre la madre morì quando lui era ancora giovane. Fin da piccolo aiutò il padre nei campi, frequentando nel contempo anche la scuola, dove imparò a leggere, a scrivere e a far di conto. A diciassette anni trovò lavoro come mozzo su una barca che trasportava legname e dopo aver la sciato la famiglia iniziò a dedicarsi a diversi lavori. Nel 1832 dovette arruolarsi contro gli Indiani di Black Hawk, e si distinse per un valoroso atto di difesa nei confronti di un indiano. Prima della guerra aveva provato a candidarsi alla legislatura, e seppur avesse molti sostenitori, non vinse. Nel 1833 fu eletto ufficiale postale a New Salem, e nel frattempo iniziò ad avvicinarsi alla politica. Nonostante fosse dichiaratamente un liberale i suoi discorsi raffazzonati gli permisero di essere eletto come un legislatore democratico, carica che ricoprì in con qualche difficoltà, ma che metteva ben il luce il suo carattere anti schiavitù. Intanto si era interessato alla carriera di avvocato, carriera che iniziò nel 1837 a Springfield (Illinois) e che gli portò grandissima fama.

L’ELEZIONE A PRESIDENTE
Divenuto celebre come avvocato Lincoln cercò di farsi eleggere al Congresso federale, venendo eletto nel 1846. Qui colse l’occasione di criticare i suoi oppositori per la gestione della schiavitù. Tentò di promulgare delle leggi contro la schiavitù, pratica che lui definiva come l’espressione della pessima politica e dell’ingiustizia. Nonostante i suoi tentativi le sue opinioni al riguardo non furono mai prese in considerazione. Finito il suo periodo al Congresso tornò a fare l’avvocato, ma tornò presto in politica quando promulgarono il Kansas-Nebraska Act del 1854, atto che ampliava la pericolosità della condizione schiavista nel Sud. Nel 1854 Lincoln rispose a Douglas, sostenitore del Kansas-Nebraska Act, con un brillante discorso tenutosi a Peoria. Grazie alla sua dimestichezza nelle discussioni, acquisita negli anni di avvocatura, Lincoln riuscì a passare alla storia grazie alle sue parole democratiche e umanitarie, prive di accezioni di vendetta e violenza. La fama di questo discorso si trascinò per anni, garantendogli un posto come Senatore e aprendo la strada al partito repubblicano. In poco tempo questo partito, che odiava la schiavitù e si opponeva ai progetti di conquista dell’America del Sud gli garantì l’elezione alla presidenza degli Stati Uniti, avvenuta con maggioranza di elettori statali nel 1860.
LA PRESIDENZA
Lincoln chiarì immediatamente che intendeva non abolire la schiavitù, ma fermarne la propagazione, implorando il Sud di non muovere guerra. Fallì nel suo intento in quanto scoppiò la secessione. Lincoln non fu molto abile nel gestire la guerra che minacciava di coinvolgere anche i paesi europei, ansiosi di riprendersi i diritti perduti sull’America, e tentennò fiducioso che il popolo del Nord avrebbe combattuto se ne ce fosse stato bisogno. Come da lui previsto il popolo si armò contro il Sud e Lincoln non perse tempo per fare della guerra civile un pretesto anti schiavitù, pretesto non solo per eliminare una pratica da lui considerata barbara, ma anche per togliere ai territori del sud ogni pretesa di indipendenza. Nel 1862 emanò il primo discorso sull’emancipazione, promettendo libertà entro un anno agli schiavi se i i ribelli del Sud non fossero tornati fedeli al Governo. Il primo gennaio 1863, non ricevendo risposta, come da proclama, liberò gli oltre quattro milioni di schiavi neri d’America. La sua popolarità dopo questo evento crebbe esponenzialmente, concedendogli l’elezione anche per il 1864.
L’OMICIDIO
Sembrava he dovesse filare tutto liscio per Lincoln, che rieletto si preparava ad altri quattro anni di presidenza. Nell’aprile 1865 tenne il suo ultimo discorso, parlando dei principi repubblicani, fiducioso del futuro, non sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo discorso. Il 14 aprile, venerdì santo, era iniziato come un giorno normale per Lincoln, che, secondo le fonti, era addirittura di buon umore, allegro e sereno come mai si era visto. Nel frattempo, in una stanza d’albergo, John Wilkes Booth, scriveva in una lettera a sua madre in cui la rassicurava che andava tutto bene. Recatosi poi al teatro Ford di Washington per ritirare della posta, apprese che quella sera il presidente sarebbe stato lì per assistere alla messa in scena di “Our American Cousin” e capì che quella sarebbe stata l’occasione giusta. Quella sera Lincoln arrivò a teatro per le 20 e 30, accomodandosi in compagnia di alcuni amici e della moglie in un palchetto appartato. Booth aspettò che il poliziotto di guardia se ne andasse durante l’intervallo, poi bloccò la porta con un pezzo di legno per tenerla aperta. Attore esperto, sapeva che ci sarebbe stato un momento dello spettacolo in cui tutti avrebbero riso, e fu così che, mentre i 1700 spettatori scoppiavano in una risata, Booth fece irruzione sparando alla testa di un ridente Lincoln con la sua pistola Derringer. Lincoln si accasciò immediatamente e Booth, dopo una breve colluttazione col generale Rathbone, riuscì a fuggire per il palco inneggiando alla vendetta. Per un momento il pubblico aveva creduto che fosse parte dello spettacolo, ma poi si sentì la moglie di Lincoln, Mary, urlare di fermarlo e iniziò un’infruttuosa cacia all’uomo. Nel frattempo furono chiamati i soccorsi per il presidente, ma inutilmente. Lincoln si spense la mattina del 15 aprile.

I COMPLOTTI SU LINCOLN
La morte di Abraham Lincoln non è esente dalla particolare abitudine degli americani di cercare il complotto ovunque. Pare che la sua fine sia contornata da una singolare coincidenza che lo lega in maniera quasi inquietante al presidente John F. Kennedy, tragicamente ucciso nel 1963. Tralasciando la diceria secondo cui Kennedy fosse la reincarnazione di Lincoln, altre teorie sono in realtà davvero interessanti, seppur meramente casuali. Entrambi i presidenti, per esempio, avevano un cognome di sette lettere. Ambedue salirono alla presidenza negli anni ’60 del proprio secolo. Il successore di entrambi si chiamava Johnson. A tutti e due spararono di venerdì con un colpo alla testa. A Lincoln spararono al Teatro Ford, a Kennedy mentre viaggiava su un’auto Lincoln Continental marchio Ford. Sono moltissime altre le straordinarie coincidenze, purtroppo però nel 1964 Martin Gardner già ne sminuiva l’importanza, spiegando il tutto con una banale legge dei grandi numeri, secondo cui, andandole a cercare, si possono trovare parallelismi per tutti i protagonisti della storia. Un’altra storiella invece riguarda la cosiddetta “maledizione dell’anno zero”, nata negli anni ’30. Secondo questo anatema alcuni presidenti eletti in anni che finiscono con il numero 0 sarebbero morti prima della fine del loro mandato. La leggenda vuole a che a lanciarla sia stato il capo indiano Shawnee Tecumseh, per vendicarsi del presidente William H. Harrison, il quale lo sconfisse più volte in battaglia. Harrison, infatti, eletto nel 1840, morì dopo solo un anno. La maledizione, che copre presidenti come Lincoln e Roosevelt, si è rivelata, poco sorprendentemente, una fandonia. Tutti e due, ad esempio, morirono prima della fine del loro secondo mandato.