Anche una panchina in città può cambiare la nostra percezione della povertà

Quando anche l’urbanistica deve fare i conti con l’etica: ecco che le nostre città diventano sempre più “ostili”.

Una “Camden Bench” (fonte: Failedarchitecture)

Si scrive architettura ostile, si legge anti-clochard. Una difesa del “decoro urbano” che nasconde un pungente sottotono discriminatorio, potrebbe offrirci uno spunto per leggere nel profondo del divario sociale e delle dinamiche che vivono nel tessuto urbano.

NUOVI PAESAGGI URBANI E L’ARCHITETTURA CONTRO IL CRIMINE

I paesaggi urbani, si sa, sono in continuo cambiamento ed ormai siamo abituati a vedere le nostre città prendere forme diverse da quelle alle quali siamo abituati. Sono ormai quasi estinte le tipiche panchine che popolavano i parchi e hanno lasciato spazio ad un urbanismo molto diverso. Da alcuni anni, l’architettura difensiva ha ottenuto popolarità, grazie alla sua fama di strumento contro la delinquenza. Esempi di questa progettazione urbana sono presenti in tutto il mondo, dalla metropolitana Milano alla lontana Boston, ed in modi molto diversi.

Si passa dagli skatestopper, device contro gli skater urbani più impavidi, agli spuntoni sui muretti, per evitare che qualcuno possa sostare o dormirci sopra. Panchine con braccioli mediani o, peggio, lastre di cemento oblique come le Camden benches di Londra, “anti-oggetto” per eccellenza.
Sono dispositivi che professano miracolose risoluzioni ai problemi più diffusi nelle grandi città – vandalismo, commercio di droga, furti e reati simili – ma che probabilmente nascondono una natura diversa: la paura della povertà.

Esempio di panchina “ostile” (fonte: Psychology Today)

LA PAURA DELLA POVERTÀ E LA REAZIONE NEGATIVA

Uno dei fatto più critici di questo assetto urbanistico è la forte repulsione al vagabondaggio. Nelle nuove città “ostili”, non c’è posto per i senza fissa dimora, che vengono privati anche della possibilità di dormire su una superficie che non sia quella dell’asfalto della strada.
Questo punto lascia l’amaro in bocca: è un’ipocrisia cittadina, la volontà di ignorare un problema che persiste nel tessuto urbano di ogni città. Insomma, non lo si può negare, la povertà non ci piace, anzi ci spaventa.

Il problema più grande è la mancanza di un’effettiva presa in mano della situazione; un comportamento, quello delle città ostili, di vigliaccheria e impassibilità che, sotto la falsa pretesa di protezione, alimenta il dislivello sociale fra le persone.
Ecco che riaffiorano alla mente i ricordi delle workhouses settecentesche raccontate da Dickens, i luoghi di reclusione forzata dove nascondere la povertà agli occhi dei giudiziosi vittoriani. E la storia sembra semplicemente ripetersi, ma in modi differenti.

NEOLIBERISMO E LA VISIONE DISTORTA DELLA POVERTÀ

La spiegazione è abbastanza chiara: il dedalo di semafori, incroci, rotonde è abitato da un sentore neoliberista che è legato profondamente allo spirito di numerose città occidentali. Ad esempio, è indiscernibile dal discorso il ruolo del puritanesimo e della sua etica del lavoro.
Proprio in riferimento alle case di lavoro inglesi, possiamo tracciare un legame culturale, che ci conduce fino alla visione calvinista del lavoro.  Il lavoro diventa una forma di preghiera, un impegno civile al quale è impossibile sottrarsi e chi se ne priva deve essere punito: la disoccupazione è peccato. Facendo coincidere questo ragionamento con la visione liberista, ne esce una visione distorta della povertà. Ecco che chi non ha lavoro, chi vive per strada o semplicemente non ha soldi è solo una persona pigra, uno “scansafatiche”.

Ciò che la quaestio dell’architettura ostile può insegnarci è quella di osservare con occhio critico anche quelli che potrebbero sembrare piccoli cambiamenti stilistici: anche una panchina, se costruita in modo scorretto, può diventare strumento di disuguaglianza.

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