
Da un lato abbiamo il padre del compromesso storico; mentre dall’altro un giornalista di borgata, le cui vite finirono lo stesso giorno. In sottofondo, un brano che ci porta alla memoria le loro lotte che ora sono diventate le nostre.
IL GIORNALISTA DAL COGNOME PESANTE
Giuseppe Impastato detto “Peppino” nacque nel comune siciliano di Cinisi, in provincia di Palermo, da una famiglia legata a Cosa Nostra: il padre, Luigi Impastato, insieme all’amico Gaetano Badalamenti detto “Zu Tano”, erano i principali detentori del potere mafioso nel piccolo comune siciliano e, per tale ragione, sembrava che il destino di Peppino fosse già scritto. Resosi conto di come le ideologie di sinistra e antimafia del figlio potessero costituire una minaccia per la famiglia, lo cacciò di casa senza esitazioni. Il giovane Peppino allora, avendo come desiderio quello di dissociarsi dalla storia legata al suo cognome pesante, oltre che denunciare il mondo di Cosa nostra parlando per la prima volta dei traffici di droga che videro coinvolto lo stesso Badalamenti (inchiesta denominata successivamente Pizza connection), cominciò a scrivere per diversi giornali di sinistra come Il manifesto e Lotta Continua, pronto a mettere in nero su bianco le condizioni in cui versava il meridione sotto il controllo mafioso. La svolta arriva solo nel 1977, con la nascita di Radio Aut in cui, attraverso vari programmi armato solo della sua voce, ruppe il silenzio omertoso che per molto tempo afflisse il comune di Cinisi, oltre che a deridere esponenti politici e mafiosi (vista la vicinanza del presidente del Consiglio Giulio Andreotti allo stesso Badalamenti). Il programma radiofonico segnò una condanna a morte per Peppino, rinvenuto “a pezzettini” sul binario della ferrovia Palermo-Trapani, prima massacrato di botte e poi esploso a causa del tritolo legato dietro la schiena. Il mandante? Badalamenti, che oltre a sentirsi infastidito dal fatto che il figlio di un suo caro amico deridesse la loro famiglia, non era assai entusiasta del fatto che Peppino decise di candidarsi alle elezioni comunali con la lista Democrazia proletaria (e che vinse). La stampa etichettò la morte di Peppino come suicidio e della stessa opinione furono anche le forze dell’ordine e la magistratura, uccidendo Peppino non una ma tre volte. L’epitaffio sulla sua tomba recita “Rivoluzionario e militante comunista – Assassinato dalla mafia democristiana”. Ma della sua morte quel giorno se ne parlò poco poiché, a quasi mille chilometri di distanza, venne rinvenuto in un bagagliaio il corpo dell’onorevole Aldo Moro.

IL PROFESSORE CHE VOLEVA FARE DELL’ITALIA UN POSTO MIGLIORE
Nato nel piccolo comune pugliese di Maglie, nessuno si sarebbe mai aspettato che il figlio di un ispettore scolastico e di un’insegnate di scuola elementare potesse diventare il volto della “Buona Politica”. Profumava di cambiamento, di rivoluzione, e per farla si armò soltanto del suo sapere e dei suoi libri di diritto. Laureatosi in Giurisprudenza presso l’Università degli studi di Bari (dal 2008 intitolata a suo nome) e, dopo una lunga carriera accademica esercitata all’interno del ateneo nel capoluogo pugliese, bisognerà attendere il 1942, dove in una serie di incontri clandestini con figure quali quelle di Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti e Amintore Fanfani, nacque Democrazia Cristiana, partito che ebbe un ruolo cardine nella ricostruzione del paese dopo la seconda guerra mondiale. L’impegno nel partito lo riportò a ricoprire le cariche più importanti fino a quando, durante le elezioni politiche del 1963, Moro diventò la persona più giovane a ricoprire il prestigioso incarico di presidente del Consiglio, incarico che ricoprì per ben 5 volte. Un anno prima della sua morte si fece fautore di un gesto che passò alla storia: in una fotografia, immortalato insieme al segretario del partito comunista Enrico Berlinguer, vengono immortalati in una stretta di mano che suggellava il compromesso storico. Voleva essere inoltre fautore di un altro gesto significativo, che vedeva la creazione di un governo di solidarietà nazionale, ma i suoi progetti vennero interrotti da uno dei più vili dei sequestri: la mattina del 16 marzo 1978, all’incrocio fra via Mario Fani e via Stresa, avvenne uno dei sequestri più famosi della storia, in cui gli uomini delle Brigate Rosse uccisero i 5 uomini della scorta ed estrassero l’onorevole dalla sua autovettura, dando inizio alla sua prigionia durata 55 giorni. Nel buio della sua “prigione del popolo”, insieme ad una bibbia ed una cassetta con la registrazione di una messa, scriveva le sue lettere di aiuto, lettere rimaste inascoltate. I suoi sequestratori, rendendosi conto di quanto Moro stesse diventando una patata bollente per loro, votarono per la sua eliminazione. Dopo averlo fatto coricare e coprire il capo all’interno del bagagliaio di una Renoult 4, venne colpito da 12 proiettili. L’autovettura, trasformatasi nella sua tomba, venne abbandonata a pochi passi dalla sede di Democrazia Cristianana. Sono molti i misteri che girano attorno alla sua morte:c’è chi pensa possa esservi stato lo zampino dello Stato stesso e chi invece reputi che sia presente, anche in questo caso, la mano della mafia, poichè la mattina del rapimento, a detta del carabiniere Francesco Delfino, era presente un personaggio noto nell’ambiente della ‘Ndrangheta. Quello che si sa per certo, è che il percorso di un professore di filosofia del diritto col desiderio di cambiare il nostro paese si concluse in un bagagliaio. Il suo di percorso, come quello di Peppino, aveva il difetto di portare il valore della verità in un paese che vede quest’ultima come una minaccia e, come tutte le minacce, devono avere non una fine, ma la più atroce delle fini.
UNA CANZONE PER RISVEGLIARE LA MEMORIA
La musica serve per fare tante cose come per colmare i silenzi, sollevare l’anima e trovare le parole che non riusciamo a pronunciare. Per chi crede che la musica possa essere solo il sottofondo da tenere nel soggiorno di casa vostra si sbaglia di grosso, poiché la musica può essere quello strumento capace di lanciare un messaggio che verrà colto anche da chi non voleva sentir proferir parola, proprio come Peppino e la sua radio che lo connetteva col mondo. Esiste un brano, “I Cento Passi”dei Modena City Ramblers, capace di raccontare, accompagnato da una chitarra e da un flauto, il coraggio di Peppino il cui destino si incrociò con quello di Aldo Moro. I cento passi cantanti dai Modena City Ramblers sono simbolici, poiché sono quelli che separavano la casa di Peppino da quella di Badalamenti. Il brano, prima scelto per la colonna sonora del film “I Cento Passi” di Marco Tullio Giordana e poi inserito nell’album di inediti ¡Viva la vida, muera la muerte!, onora il loro lavoro. Verso la fine del brano, il cammino contro la lotta alla mafia di Peppino si incrocia con quello di Aldo Moro, suggellato da una data che per loro fu una pietra tombale, ma per noi l’inizio della nostra marcia:
“Era la notte buia dello Stato Italiano, quella del nove maggio settantotto.
La notte di via Caetani, del corpo di Aldo Moro, l’alba dei funerali di uno Stato.
Allora dimmi se tu sai contare, dimmi se sai anche camminare.
contare, camminare insieme a cantare.
La storia di Peppino e degli amici siciliani.”