Che cos’è la lingua se non lo specchio dei suoi nativi? Cosa possono dirci le parole di noi?
Ultimamente si ragiona molto sulla caratteristica sociale della lingua che va ad influenzare le modalità di pensiero della società che la produce. Gli esempi sono classici: l’Inglese che non esprime il genere, il latino che invece ha ben tre generi differenti e l’italiano che invece ne contempla soltanto due. Di per sé sembrerebbe che la lingua descriva più che altro le varie differenziazioni tuttavia appare più utile soffermarsi sulla sua capacità di unire invece e di esprimere le peculiarità dei suoi parlanti.
Gli studi di Sapir e Whorf
L’ipotesi di Sapir Whorf è interessante da questo punto di vista. Si concentra infatti sul concetto di relativismo linguistico e, se estremizzata, teorizza che la lingua determini il modo di pensare della popolazione che la parla.
Questa idea si era già fatta largo in India ed in Occidente ma ciò che rende innovativi gli studi di Whorf e Sapir è il campo d’interesse, essendosi concentrati sulla questione linguistica d’oltreoceano, in particolare Whorf a proposito della lingua hopi, idioma uto-azteco, parlata ad oggi da 5000 persone nell’area meridionale dell’Arizona. Le scoperte del linguista fanno capo al filone iniziato da Zoas, insegnante di Sapir, di cui Whorf era allievo.
All’interno del suo libro “Linguaggio, pensiero e realtà” del 1956, composto da studi mai pubblicati a causa della sua morte, sono presenti saggi riguardanti le categorie grammaticali, sul modello d’universo degli Indiani d’America ed una lunga relazione sul pensiero abituale e sul comportamento col linguaggio. Questo capitolo forse ci è utile per comprendere quanto si fosse concentrati sulla forza dell’abitudine linguistica che porta alla sua creazione. Porta come esempio infatti i diversi modi in cui in italiano vengono chiamati l’aereo, la libellula ed un pilota, che in hopi vengono espressi in un unico modo “masa’ytaka”, ed al contrario i tre nomi della neve per gli eschimesi e l’unico per l’italiano, a seconda se sia soffice, battente o ghiacciata.
Le ripercussioni della e sulla lingua
Sono molti gli effetti che una lingua può produrre dal punto di vista grammaticale e possono essere sia positivi sia negativi. Alcune lingue polinesiane infatti, al posto di differenziare il genere, usano una distinzione tra felice ed infelice, perché quella è l’informazione che vogliono sia percepita.
Inoltre è sempre utile ricordare che la lingua è un organismo in costante mutamento ed evoluzione e per questo rispecchia in maniera precisa le trasformazioni della società che la parla. Alcuni serbatoi linguistici più difficilmente attaccabili sono il settore della toponomastica, quindi i nomi delle località, i cognomi ed i proverbi. Ciò che va tenuto a mente è pertanto che la lingua non influenza il modo di pensare ma il modo di vedere del suo parlante che, attraverso determinate clausole, può esprimere determinate informazioni e non altre.
I modi di dire come specchio del vedere
I proverbi sono dunque altamente conservativi e mostrano con chiarezza le trasformazioni dei propri parlanti. Va comunque detto che l’italiano è una lingua relativamente giovane e per questo motivo sarebbe più corretto analizzare i dialetti.
Prendiamo a titolo esemplificativo “L’abito non fa il monaco”, “Il gioco non vale la candela” e “Chi troppo vuole nulla stringe”. Senza soffermarci a spiegarne origine o significato questi tre proverbi riescono a dirci molto, per non parlare degli sfondi contadini che descrivono molti dei modi di dire in italiano perché specchio della sua società, tanto quanto i richiami biblici o alla vita clericale, al vino. Cosa differente per le altre lingue, per esempio quando si parla di una persona che mangia molto in italiano si dice “mangiare come un maiale”, mentre in inglese come un cavallo, o ancora in francese per dire di farsi i fatti propri ci si occupa delle proprie cipolle. Questo per dire che ogni lingua conserva in sé delle sue verità, delle sue trasformazioni.