La storia del mondo, sin da quando l’uomo ha messo per la prima volta piede sulla superficie terrestre, è una storia di stragi, massacri, genocidi. Fin dove riesce ad arrivare la follia umana?
Nella giornata di martedì 18 Febbraio, Liliana Segre, politica italiana nonché superstite dell’Olocausto, ha ricevuto il dottorato ‘honoris causa’ da parte dell’Università La Sapienza di Roma. La sua terribile vicenda ci spinge ancora una volta a ricordare le grandi stragi che affollano le pagine dei libri di storia, fino ai tempi di Giulio Cesare…
La conquista di Alesia e il genocidio dei Galli: una storia narrata da un vincitore
Quando ci accostiamo allo studio di un evento storico, soprattutto nel caso in cui esso riguardi avvenimenti molto remoti, siamo spesso costretti a venire in contatto con imponenti banalizzazioni e semplificazioni che rischiano di farci approcciare a tale evento in maniera distorta. Libri scolastici, manuali universitari, enciclopedie, romanzi storici: nessuna di queste categorie è esente da questo rischio e una delle maggiori cause di tali distorsioni è da ricercare nelle fonti stesse che ci tramandano i fatti a cui siamo interessati. Esse, infatti, pur essendo il più grande strumento che un appassionato di scienze storiche possiede per ricostruire un evento (siano esse fonti materiali, letterarie, iconografiche, orali ecc.), devono essere utilizzate con molta attenzione per diversi motivi, che vanno dal deperimento delle fonti stesse al loro diverso grado di attendibilità. Tuttavia, ritengo utile porre il focus della nostra attenzione su una sola delle possibili cause che incrinano l’attendibilità delle fonti: la frequente unilateralità e la conseguente mancanza di una pluralità di vedute che possano farci avere una panoramica più ampia e meno faziosa su un evento storico. Per far luce nel modo più chiaro possibile su questo aspetto, così astrattamente semplice quanto concretamente problematico, ci possiamo servire di un evento tratto dalla storia romana e riguardante una delle personalità più controverse ma anche più note che diedero lustro a tale storia: Giulio Cesare. Cesare, vissuto nel I secolo a.C., oltre ad essere stato un abile politico e militare romano, si dedicò anche all’attività letteraria, come testimoniatoci da due imponenti opere storiche scritte da costui: il “De bello Gallico” e il “De bello civili”. Queste opere, più che trattati storiografici, sono definite “commentari“ poiché, pur narrando eventi storici (la guerra tra Romani e Galli il primo e la guerra civile contro Pompeo il secondo), vedono il protagonista delle vicende narrate coincidere con l’autore stesso delle opere, ossia Cesare in persona. Ed ecco che, all’interno della prima opera, Cesare, nel più ampio quadro della sua campagna contro i Galli, cita un evento, forse il più celebre e risolutivo dell’intera guerra gallica, riguardante la presa di Alesia.
La battaglia di Alesia: una strage di innocenti
La Gallia, territorio all’epoca molto ampio e abitato da diversi popoli, era rientrata negli interessi di Cesare sin dal 59 a.C. quando, nel corso del suo consolato, ottenne grazie all’appoggio degli altri triumviri il proconsolato delle province della Gallia Cisalpina e dell’Illirico per cinque anni, a cui poi si aggiunse anche la Gallia Narbonense.
“Pur non avendo combattuto in Gallia nemmeno dieci anni, Cesare conquistò a forza più di ottocento città, assoggettò trecento popoli, si schierò in tempi diversi contro tre milioni di uomini, ne uccise un milione e altrettanti ne fece prigionieri”
Basterebbero queste parole tratte dalla “Vita di Cesare” di Plutarco per farci un’idea complessiva sulla maestosità della strage che portò con sé la campagna gallica. Tuttavia, sebbene tutti gli eventi meriterebbero una trattazione specifica, ritengo più opportuno narrare ciò che accadde durante l’ultimo anno di guerra, il 52 a.C. Nel corso di quest’anno, all’interno della variegata compagine gallica, emerse una figura di grande rilievo, un condottiero originario della tribù degli Arverni e che era riuscito in un’impresa che nessuno prima di allora aveva avuto nemmeno il coraggio di tentare: riunire tutte le tribù galliche sotto un solo comandante. Il suo nome era Vercingetorige. Il primo segnale di una coalizione gallica si manifestò quando i Carnuti uccisero tutti i coloni romani nella città di Cenabum (Orléans), seguita dal massacro di altri cittadini romani, mercanti e coloni, nelle principali città galliche. Cesare, che non poteva starsene con le mani in mano, radunò rapidamente alcune coorti ed attraversò le Alpi. Lo scontro avvenne presso la collina fortificata di Gergovia, dove Vercingetorige riuscì, un po’ per indisciplina dei legionari romani, un po’ per la divisione dell’esercito in due parti voluta da Cesare, ad ottenere un’inattesa vittoria. Ecco che, forti di questa vittoria, le tribù galliche decisero di unire tutte le forze di cui disponevano e di non indugiare ormai sazi del successo ottenuto, ma di inseguire Cesare in campo aperto. Mai scelta si rivelò più errata poiché il comandante romano, prevedendo questa decisione ed essendosi ricongiunto con Labieno, impartì una sonora sconfitta a Vercingetorige, che fu costretto a ritirarsi ad Alesia, nel territorio dei Mandubi. Alesia era una cittadina fortificata, considerata inespugnabile dato che si trovava su una collina ed era circondata a valle da ben tre fiumi. Di conseguenza, quando Cesare si diede all’assedio, mise su una delle più grandi opere di ingegneristica e di tattica militare che la storia rimembri. Ben 80.000 uomini gallici erano serrati in città e allo stesso tempo Cesare era circondato dalle svariate popolazioni che si trovavano nei territori circostanti, pronte a venire in aiuto del loro leader. Torri di guardia, circonvallazioni, controvallazioni, sistemi di irrigazioni: questi e molti altri furono i marchingegni ideati da Cesare e costruiti nell’arco di un solo mese, con i quali il comandante romano voleva perseguire un duplice scopo: privare di viveri gli 80.000 assediati e allo stesso tempo non lasciare il suo esercito senza cibo e acqua. E che fine fecero i poveri Mandubi, semplici cittadini di Alesia, che da un momento all’altro si trovavano un esercito assediato in città e un esercito assediante appena fuori le mura? Quello che Cesare narra al capitolo 78 del settimo libro del De Bello Gallico può essere definito come un vero e proprio sterminio di un’intera popolazione: le condizioni di vita all’interno di Alesia cominciarono a diventare pesanti per l’esercito gallico e, una volta consumato tutto il frumento, si radunò un’assemblea. Un tale Critognato propose un qualcosa di tanto crudele quanto apparentemente normale per l’epoca:
Quid ergo mei consilii est? Facere quod nostri maiores nequaquam pari bello Cimbrorum Teutonumque fecerunt: qui in oppida compulsi ac simili inopia subacti eorum corporibus, qui aetate ad bellum inutiles videbantur, vitam toleraverunt neque se hostibus tradiderunt.
Dunque qual è il mio consiglio? Di fare come fecero i nostri antenati nella guerra contro i Cimbri ed i Teutoni, quando, respinti nelle città e costretti da simile carestia, si cibarono dei corpi di coloro che per età non erano più adatti alla guerra e non si arresero ai nemici…”
La proposta di Critognato è palesemente quella di una vera e propria carneficina umana e, in seguito a queste parole, i Galli stabilirono che tutti coloro che per età o salute non erano adatti alla guerra dovessero uscire dalla città. Pur non accogliendo dunque l’opinione di Critognato, cioè quella di uccidere, cucinare e mangiare i cittadini, si riservarono comunque in ultima analisi la possibilità di giungere anche a compiere tale misfatto. Donne, bambini, vecchi del popolo dei Mandubi furono costretti ad uscire dalla città e morirono tutti di fame, serrati tra le mura della città di Alesia e le linee fortificate romane, nell’indifferenza degli altri Galli. La crudeltà e la barbarie gallica contro la clementia del grande Cesare: è questo che sembrerebbe emergere dalle pagine cesariane. Ma se Vercingetorige avesse scritto una sua storia, se disponessimo di una ricostruzione dei fatti non solo romana ma anche gallica, quanti faziosi preconcetti verrebbero meno e quanto sarebbe diversa la nostra visione storica sui fatti narrati? La storia la fanno i vincitori e Cesare, da grande vincitore, ci mostra la sua versione dei fatti, per noi indubbiamente preziosa, ma pur sempre faziosa.
Dottorato ‘honoris causa’ a Liliana Segre, una donna che ci invita alla conoscenza e al ricordo.
“Capire è impossibile, ma conoscere è necessario”
Sono queste le parole pronunciate da Liliana Segre, citando Primo Levi, in occasione della lectio magistralis tenutasi nell’Aula Magna dell’Università La Sapienza di Roma per il conferimento del dottorato ‘honoris causa’ a una donna da cui tutti noi dovremmo trarre ispirazione. Quella di Liliana è la storia di una bambina che il 30 gennaio del 1944, a soli 13 anni, si ritrovò insieme a suo padre su un carro bestiame al binario 21 della Staziane Centrale di Milano. Direzione? Auschwitz Birkenau.
“Una volta scesi dal treno ci ritrovammo subito circondati da tanta gente: c’erano i prigionieri del campo che avevano l’ordine di smistare le valigie, c’erano i soldati nazisti che smistavano noi, le guardie con i cani al guinzaglio che abbaiavano».
Da quel momento in poi Liliana non avrebbe mai più rivisto suo padre. Quell’anno e mezzo trascorso ad Auschwitz tra gli estenuanti lavori in una fabbrica di munizioni insieme ad altre 700 donne e ragazze e le angherie dei soldati nazisti rappresenta ancora oggi un incubo per Liliana: il gelo dell’inverno polacco, i pidocchi, il pigiama a righe, le file interamente nuda per la selezione non smettono mai di incalzare la mente dell’attivista milanese, la cui unica fonte di sollievo è rappresentata da quel 1 maggio del 1945, in cui il campo venne liberato dalle truppe alleate e lei, insieme a poche altre deportate, potettero finalmente gustare l’inebriante sapore della libertà.
“Eravamo esauste ma di una felicità che, ancora oggi, non saprei descrivere per quanto era grande. Sono potuta tornare in Italia quattro mesi dopo, alla fine di agosto del 1945. Un altro viaggio in treno, ma con vagoni aperti. Era estate ed eravamo ancora vivi».
Dei 776 bambini italiani di età inferiore ai 14 anni che furono deportati nei campi di concentramento, sopravvissero solo Liliana ed altri 24.
Quando si parla di Olocausto, data la distanza cronologica che ormai ci separa da esso, si tende spesso a fare troppa dietrologia, finendo per vedere i fatti accaduti come un qualcosa a sé, separato dalla nostra realtà quotidiana, un qualcosa a cui spesso ci avviciniamo senza una reale consapevolezza. La consapevolezza, infatti, non proviene dalla lettura di aride notizie presenti su un libro di storia, che non possono far altro che fornirci un’astratta e confusa panoramica della realtà, bensì dai racconti concreti, le testimonianze, i diari di coloro che hanno davvero vissuto quell’inferno, unico modo attraverso il quale quel ricordo al quale siamo spesso invitati non diventi uno squallido tentativo di mantenere la coscienza pulita. La storia di persone come Liliana Segre ci deve essere da monito perché, anche se i fatti non si ripetono forse sempre nello stesso e identico modo, tuttavia gli istinti e le passioni umane caratterizzeranno l’uomo di ogni epoca e continueranno a farlo. Di conseguenze, è solo tramite la conoscenza reale del passato che possiamo almeno provare a comprendere meglio il presente e a costruire un futuro in cui poter utilizzare la conoscenza acquisita per bloccare sul nascere tentativi di repressione e annientamento di razza. Verrà forse il giorno in cui il mondo si macchierà nuovamente di uno scempio simile a quello perpetrato ai danni degli ebrei nella prima metà del secolo scorso, dato che nessuna epoca storica è stata mai esente dalla follia umana che ha prodotto stragi, massacri, genocidi. Lo abbiamo già visto con Cesare, ma la lista potrebbe tragicamente allungarsi se ci soffermassimo su altri tragici eventi come il massacro dei catari albigesi da parte dei Cristiani nell’VIII secolo, delle invasioni e delle seguenti stragi di Mongoli ad opera di Gengis Khan, del genocidio degli Armeni e di tante altre stragi che a causa di un compiaciuto silenzio, oserei dire quasi intenzionale, rischiano di cadere nel dimenticatoio. L’Olocausto è stato solo uno dei tanti momenti in cui l’uomo si è allontanato da sé stesso per avvicinarsi alla condizione di una bestia, una condizione non distante da quelle leggi di natura profetizzate da Thomas Hobbes e contro le quali il solo ricordo non può nulla se non condito da altri elementi quali la conoscenza, la longanimità e la consapevolezza… ecco che la bestia si trasforma in essere umano, l’uomo emerge e sfida le aspre leggi di una natura leopardianamente matrigna e l’altro diventa un nostro simile, un uomo nel quale possiamo rispecchiarci e conoscere un po’ di più noi stessi.