Quando parliamo di memoria tendiamo a fare riferimento al nostro patrimonio di ricordi e conoscenze: in altre parole, alla memoria a lungo termine. Ma questa non è la sola che possediamo. Ne esiste una seconda, una volta definita “memoria a breve termine”, oggi perlopiù “working memory”. È quella che ci permette di manipolare le informazioni e di svolgere le comuni attività di pensiero, e solo da relativamente poco si è potuta apprezzare la sua complessità.

Nel 1967, in psicologia, grazie alle affermazioni di Ulrich Neisser, si è sviluppata una corrente detta cognitivista. Secondo i cognitivisti, l’essere umano sarebbe assimilabile a una macchina computazionale: ad ogni input corrisponderebbe un preciso output. E il percorso di elaborazione che porta all’output sarebbe conoscibile. Questo ha ovviamente portato a una rivoluzione del paradigma scientifico psicologico, e alla nascita di numerose teorie coerenti con questa nuova prospettiva. All’interno della metafora computazionale la nostra memoria a breve termine viene paragonata alla memoria RAM di un computer. Ma ci sono delle debite differenze.
La working memory
A pochi anni di distanza, nel 1974, Alan Baddeley e Graham Hitch, due psicologi cognitivisti, sviluppano il modello della “working memory“, la memoria di lavoro. Grazie a questa manipoliamo informazioni visive e uditive, immagazziniamo le informazioni per un periodo di tempo limitato, focalizziamo la nostra attenzione su ciò che è di nostro interesse e molto altro. Resta il fatto che sia un sistema a capacità limitata, che si può sì potenziare, ma solo fino a un certo punto.

Questo è un modello più preciso, accurato, dinamico ed evoluto della memoria a breve termine. Si è dimostrato particolarmente valido in quanto unisce processi e strutture di pensiero e ha trovato numerose prove neuroscientifiche a suo supporto. La working memory può essere ancora scomposta in 4 sottocompartimenti: il ciclo fonologico, il taccuino visuo-spaziale, l’esecutivo centrale e il buffer episodico.
Il primo sistema sussidiario della working memory: il ciclo fonologico
Il ciclo fonologico è il primo sistema sussidiario (quindi altamente specifico per un solo aspetto) della working memory. Si occupa dei fonemi, e ha quindi natura prevalentemente linguistica.

Può essere a sua volta scomposto in magazzino fonologico e controllo articolatorio. Si dice che il magazzino abbia un accesso diretto e obbligato: questo vuol dire che le informazioni in arrivo non possono fare a meno di passarci attraverso. È coinvolto nella percezione diretta (la parola udita) e le informazioni che arrivano vengono qui mantenute attive, attraverso un codice fonologico. Il controllo articolatorio ha invece un accesso indiretto, dato che a che fare con la percezione visiva delle parole. È responsabile della trascrizione grafema-fonema e del ripasso sub-vocale: di quest’ultimo abbiamo esperienza continua, quando ‘parliamo nella nostra mente’, senza coinvolgere nessun apparato linguistico vero e proprio. Il ciclo fonologico mantiene l’informazione attiva, ma non la sua rappresentazione. La dislessia è un problema che potrebbe nascere dal suo danneggiamento.
Il taccuino visuo-spaziale
Il secondo sistema sussidiario è il taccuino visuo-spaziale. Anche questo ha accesso diretto, ma si occupa delle informazioni visive in arrivo dall’esterno. Ha due sottocompartimenti, uno deputato alla codifica di forme e colori, l’altro alle informazioni spaziali e di movimento. Abbiamo però anche un accesso indiretto al taccuino: la generazione mentale di immagini. Una piccola curiosità a riguardo: sembra ci sia una sua attivazione anche in soggetti cechi. È anche uno dei pochi ambiti in cui sembra esserci una differenza di genere: sembra infatti che gli uomini abbiano migliori capacità di orientamento rispetto alle donne.

Il buffer episodico
C’è una terza componente della working memory di cui ancora oggi si sa molto poco: il cosiddetto buffer episodico. Si pensa che abbia a che fare con l’integrazione delle informazioni della working memory con alcune di quelle provenienti dalla memoria a lungo termine, creando vere e proprie scene o schemi di episodi complessi. Sono rappresentazioni multidimensionali e multisensoriali, e sembra che l’attività integrativa delle informazioni sia presieduta dall’Ippocampo.
L’esecutivo centrale

Abbiamo poi quindi un sistema di coordinamento della attività cognitive: l’esecutivo centrale. Questo ha a che fare con gli aspetti complessi della cognizione, ovvero con le funzioni esecutive: tutti i nostri processi messi in atto per uno scopo preciso. L’esecutivo centrale presiede anche a diverse funzioni mnestiche, come quella di inibizione, quella si shifting (passare da un compito ad un’altro), quella di aggiornamento (per il monitoraggio delle informazioni e delle azioni)… Ma un aspetto cruciale di questo apparato è la sua limitatezza. Le risorse che l’esecutivo mette a disposizione non sono infinite, ed è per questo che la working memory ha capacità limitata. Non siamo dei computer, capaci di lanciare diversi programmi in simultanea senza incappare in problemi. L’allenamento può servire, ampliando mano a mano le risorse in nostro possesso, ma non può garantirci prestazioni da supercomputatori.
Alla ricerca di Dory: la perdita di memoria a breve termine raccontata da Pixar
Esiste una patologia alquanto debilitante che colpisce la working memory: viene chiamata perdita di memoria a breve termine. Questa ha a che fare con la perdita di quel tipo di informazioni che vanno tenute in memoria per un breve periodo di tempo (come, ad esempio, una lista della spesa). Le cause possono essere molteplici, ma in generale hanno a che fare con l’età, con un lieve deficit cognitivo o l’insorgere della demenza. E parlando di questo disturbo non può non venire in mente Dory, il simpatico pesce chirurgo co-protagonista de “Alla ricerca di Nemo” e poi protagonista di un film dedicato a lei.

La protagonista si ritrova coinvolta in più avventure, ma spesso non ha coscienza di quello che sta vivendo. Si scorda in continuazione di cosa stia facendo e cosa dovrebbe fare, lasciandola in una sorta di limbo, da cui la tirano fuori i suoi compagni. E siamo tutti d’accordo nel dire che sul grande schermo la sua condizione possa far sorridere. Ma, in realtà, è un disturbo davvero limitante, come afferma lo stesso regista Andrew Stanton: “vivere con un handicap del genere dev’essere veramente complicato. Per me Dory è sempre stato un personaggio tragico che cerca di affrontare con coraggio una situazione estremamente difficile, frustrante, spaventosa. Non ha idea di chi sia e da dove venga” aveva affermato. E purtroppo è una condizione che molti si trovano a vivere: per quanto sia più rara delle patologie che colpiscono la memoria a lungo termine, i soggetti colpiti da deterioramento della memoria a breve termine, di fatto, non riescono a vivere il presente. Non a caso si dice che questa memoria rappresenti l’hic et nunc psicologico. E per questo è difficile capire cosa si provi quando non ne si ha coscienza.