«È iniziato tutto con un corso di fotografia al quale partecipai, e quest’uomo era il relatore del corso. Durante la prima lezione prese i numeri di cellulare di tutti i partecipanti. Erano tutti adulti. Solo io e un’altra ragazza avevamo 13 anni.»
La violenza sessuale, di qualsiasi tipo e di qualsiasi forma, è il reato in assoluto meno denunciato. I casi di stupro che arrivano in tribunale toccano percentuali che oscillano dall’1% al 28% del totale dei casi effettivamente accaduti. Ormai, non passa un giorno senza che, al telegiornale, si sentano notizie di molestie, stupri, femminicidi, violenza domestica. Oggi vi presento M, una ragazza che ha affrontato, a 13 anni, tutte le conseguenze di essere vittima di molestie verbali, di esposizione a materiale pornografico e sudditanza psicologica. La violenza sessuale non si limita solo all’atto dello stupro. Sono tante cose, di piccola o grande entità, che contribuiscono a distruggere il corpo, l’anima e lo spirito della vittima. Ogni azione ha una conseguenza.
«Così è iniziato tutto. Con la scusa di consigli o suggerimenti inerenti alla fotografia, a come usare i vari programmi di post produzione, mi scriveva. All’inizio poco spesso, e poi ogni giorno»
E cosa ti diceva?
«La cosa più banale, che ero bellissima. E dirlo ad una ragazzina che si è sempre sentita bruttina e per nulla notata dal sesso opposto fu un amo perfetto. La cosa che più mi è stata difficile da accettare nel corso degli anni è stato che quelle attenzioni all’inizio mi facevano piacere..»
La psicologia dello sviluppo ci fornisce un dato importante a riguardo. I cambiamenti fisici propri dell’adolescenza, età in cui le insicurezze sono all’ordine del giorno, fanno parte del periodo nel quale siamo tutti più fragili, sensibili alle opinioni altrui e desiderosi di piacere. Molti di voi ci saranno sicuramente passati: gli adolescenti sono preoccupati per la loro immagine corporea e sviluppano idee su quello che gli altri potrebbero pensare del loro corpo. Soprattutto le ragazze tendono ad essere particolarmente inclini a provare ansia per il proprio corpo e ne hanno immagini più negative rispetto ai ragazzi. Immaginatevi che effetto può avere su una ragazzina di 13 anni sentire per la prima volta un complimento a riguardo.
«Attraverso tutti quei consigli si faceva passare come un amico ai miei occhi, mi diceva che ero bella, che ero un bel soggetto fotografico, che ero brava con la camera e tante altre lusinghe.. Molte le ho rimosse totalmente. Pian piano, però, le conversazioni, diventate ormai giornaliere, scivolavano dall’argomento centrale, la fotografia, verso altro.. Iniziò a fare apprezzamenti sempre più spinti. Ed io ero talmente tanto persa in quel turbinio che non mi accorgevo che c’era qualcosa che non andava… Dai complimenti passò a chiedermi delle foto, delle “prove di fotografia”. E io mi fotografavo e mi piaceva sapere che per lui erano belle foto, ci tenevo tanto. Così sono passati forse quattro o cinque mesi…all’inizio mi sono imposta di dimenticare tutto, e alla fine per molte cose ci sono riuscita»
Un classico meccanismo di difesa contro eventi fortemente traumatizzanti è quello della rimozione del ricordo. Si tratta di un processo, a volte inconsapevole, a volte meno, che il cervello mette in atto per proteggersi da eventi che possono avere ripercussioni psico-somatiche.
«Durante quei mesi in cui parlavamo non si fermò a chiedermi solo delle foto, mi diceva cosa avrebbe voluto farmi, in che modo mi desiderava, cosa voleva che facessi per lui, mi consigliava film per adulti, mi passava dei nudi fotografici che aveva scattato dicendomi che moriva dalla voglia di fare delle foto del genere anche a me… Ancora mi risuonano nelle orecchie le sue parole, la sua voce… Non sono mai andata a casa sua, né gli ho mai permesso di vedermi nuda, ma lasciavo che mi dicesse tutto questo, lasciavo che mi chiamasse nel cuore della notte mentre si dava piacere nominando il mio nome…»
Questi, anche se in maniera inconscia, sono comportamenti indesiderati, di tipo verbale e non verbale, che hanno l’effetto di violare la dignità della persona: sono le molestie sessuali. L’impatto sulla psiche è immenso, spesso caratterizzato dalla tendenza ad auto-colpevolizzarsi, avendo “permesso” all’uomo di lasciare fare. Le vittime di questi atti sono anche quelle più soggette a stigmatizzazione e stereotipi caratterizzati dall’espressione “Se l’è cercata”.
«Arrivai a non esistere più. Non ero più un soggetto pensante, ero un corpo senza mente. Mi lasciavo passare tutto addosso come se fosse un sogno, un brutto sogno. In quel tempo mi sentivo come se vivessi due vite, da un lato ero una normale tredicenne che andava a scuola, a pallavolo, che rideva con le amiche, e dall’altro lato brancolavo nel buio.»
E quando hai capito che doveva finire?
«Da una cosa stupidissima, che se ci ripenso mi fa ridere. Mentre parlavo con lui ho iniziato ad andare al liceo, e al tempo frequentavo il linguistico, solo che non ero soddisfatta. Il problema era che quella scuola non funzionava, non facevo nulla e a me non stava bene. Volevo andare via e puntare su qualcosa di più costruttivo. Ne parlai con lui e mi rispose semplicemente “Perché dovresti cambiare? Secondo me stai bene lì”. Io risposi che non potevo farmi andare bene il non fare nulla e lui mi disse che non vedeva il problema. A quel punto, mi resi conto che un qualsiasi adulto normale mi avrebbe detto che avrei fatto bene a cambiare scuola e andare in un posto migliore, ma lui non lo aveva fatto, di conseguenza non poteva essere un adulto ragionevole e all’improvviso mi resi conto di tutto quello che era successo, di tutto il tempo che era passato…e rimasi sconvolta. Gli dissi che non avrei mai più voluto sentirlo»
Lui quanti anni aveva?
Allora 56.
Si è mai permesso di insistere?
«Si, ci ha provato per un bel po’. All’inizio mi continuava a scrivere come se niente fosse, poi ha cercato di attirare la mia attenzione con l’indifferenza, poi a cercarmi spesso, fino a quando non l’ho minacciato dicendogli che se mi avesse scritto ancora avrei parlato e lo avrei rovinato. Allora smise. La cosa veramente brutta di tutto questo è stata il dopo. Quando tagliai i ponti con lui mi resi conto della puttanata che avevo fatto. Iniziai a schifarmi, ad odiarmi. Avrei preferito morire piuttosto che continuare ad essere tormentata ogni giorno dalla sua voce, da quegli occhi che mi guardavano come un pezzo di carne… Mi facevo deliberatamente del male. Iniziai a fumare, a bere, a non mangiare o a mangiare troppo, a non dormire, a non parlare, a scaricare su tutti e in primis su di me quella rabbia che mi stava mangiando. Non so neanche come sia passato quel periodo, non lo ricordo più…»
Hai mai pensato di denunciarlo davvero?
«Si, ma non ci sono ancora riuscita. Però spero di arrivare anche a fare questo.»
Spiegati meglio.
«Non sono mai riuscita a denunciarlo apertamente per lo stesso motivo per cui sono dovuti passare cinque anni per parlarne.. Quel senso di impotenza, misto alla disperazione e alla paura, che ti paralizza..Rimani immobile e non sai spiegarti nemmeno perché»
Come ne sei uscita?
«Ho aspettato che passasse tutto da sé. Non sapevo come dovevo affrontare la cosa e ci ho convissuto fino a quando ha smesso di farmi male. Forse il momento in cui ha smesso di farmi male è stato sabato. A scuola hanno organizzato una campagna di sensibilizzazione per il cancro al seno, e per tutte le malattie oncologhe prettamente femminili. Il tutto poi ha confinato nell’analisi della condizione della donna e, ovviamente, della tematica della violenza contro le donne. Sono andata dalla professoressa che ha organizzato la giornata, che già sapeva parte di quello che mi era successo, e le ho chiesto di provare a parlare. E ho parlato. Davanti a duecento persone ho parlato, senza piangere. Allora ho capito che non mi faceva più male, e che avevo superato tutto. Quando ho parlato con quella professoressa è stata la prima volta che ne ho parlato seriamente con qualcuno per fare in modo che quella persona non entrasse mai più in una scuola, e che avesse a che fare con dei ragazzi. E ha funzionato, lui non ha più messo piede in alcun plesso della zona. Parlare è molto importante, se non lo avessi fatto magari adesso lui potrebbe ancora entrare nelle scuole e avere davanti a sé migliaia di “prede”.»
I tuoi genitori lo sanno?
«Mia madre lo sa, mentre mio padre non credo lo saprà mai. Almeno non penso che glielo dirò mai. Mia mamma a dire il vero sa il 10% di tutto quello che è successo, e va bene così. Sono sempre stata una che se la cava da sola, e anche stavolta me la caverò. Non immagini quanto sia difficile parlare di questo mentre vedi che negli occhi di quelle persone che hanno sempre cercato di proteggerti dal male si accende l’odio.»
Anche per questo hai paura a denunciare?
«Forse in parte. Ho un fratello più grande di me di quattro anni e un paio di anni fa gliene parlai. Nei suoi occhi si accese quell’odio irrazionale che conosco bene, e gli feci giurare di non fare nulla. Preferisco affrontare questa cosa da sola, per non vedere quell’odio in nessuna delle persone che amo.»
Perché non vuoi che nessun altro stia male per questa cosa
«Esatto. I miei genitori e mio fratello hanno sempre cercato di proteggermi dalle brutture del mondo, e stavolta li voglio proteggere io. Prima o poi riuscirò a far partire una denuncia anonima. Bisogna provare a trovare la forza di parlare… È difficile, ma non impossibile. Solo parlando, denunciando, si può veramente andare avanti e fare in modo che le nostre brutte esperienze non debbano essere esperienze anche di altri.»
Atti di pedofilia come queste possono portare a comportamenti distruttivi da parte della vittima. Una cospicua percentuale di soggetti è portato all’abuso di sostanze, difficoltà a costruire relazioni di mutuo-supporto con gli altri, al deterioramento delle relazioni sociali e alla perdita del controllo delle memorie traumatiche represse, che portano a scontrarsi quotidianamente con esse. Le conseguenze di pochi minuti, pochi giorni o poche settimane si ripercuotono per tutta la vita della vittima. Le donne sono spintonate, prese a schiaffi, a calci, a pugni, violentate, accoltellate, toccate e costrette a subire la visione di immagini pornografiche contro la loro volontà. Sono soffocate, bruciate, attaccate con l’acido, colpite con oggetti contundenti e con armi da fuoco. Ma la cosa peggiore è che le donne sono, spesso, vittime delle persone che amano, vittime di essersi innamorate della persona sbagliata, di aver svoltato l’angolo sbagliato o, semplicemente, di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato. Oggi è una sconosciuta che appare un telegiornale, ma se non facciamo qualcosa perchè tutto questo possa finire una volta per tutte, un domani potrebbe essere vostra sorella, vostra cugina, una vostra amica. E dobbiamo continuare a raccontare quello che è successo per non dimenticare e perchè non succeda più. Lo scorso 25 Novembre abbiamo celebrato la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, un piccolo promemoria per qualcosa che dobbiamo imparare a non dimenticare, per combattere l’istinto animale che origina solo da odio, violenza indiscriminata, belluina, dagli atti ingiustificabili di un uomo che ha dimenticato di essere uomo. L’umanità è l’ultima cosa che ci resta.
Alice Tomaselli