Uno studio ha analizzato il legame genetico tra le popolazioni africane dei luoghi da cui partivano gli schiavi e quelle americane dei luoghi in cui sbarcavano.
Più di 12 milioni furono gli africani coinvolti nella tratta degli schiavi tra il 1515 e il 1865, periodo che fu caratterizzato da violenza e da maltrattamenti e le cui tracce sono visibili nelle prove genetiche rintracciate da uno studio pubblicato sull’American Journal of Human Genetics.
L’analisi del patrimonio genetico
I legami genetici tra le popolazioni che vivono nelle regioni africane dove venivano prelevati gli schiavi e quelle nelle regioni americane dove sbarcavano “corrispondono nella giusta proporzione col numero di individui che sono stati deportati”: ecco cosa emerge dall’analisi genetica effettuata su 50mila persone. Si tratta di una prova genetica che ci racconta non solo le razzie di interi territori ad opera dei trafficanti di schiavi, ma anche lo sfruttamento e il brutale destino di milioni di uomini. Pochissimi i legami genetici degli afroamericani con le popolazioni del Senegambia, ad esempio: questo perché in quei territori il lavoro era inerente ai campi di riso, dove altissimo era il tasso di mortalità a causa delle grosse probabilità di contrarre la malaria. Inoltre, nonostante fosse di sesso maschile il 60% degli schiavi, è delle donne il più grande contributo nel patrimonio genetico. Come mai? La triste motivazione ha a che fare non solo con lo sfruttamento sessuale, ma anche con il crudele tentativo di aumentare la prole bianca, mediante l’accoppiamento delle donne africane con gli uomini bianchi.
“Servi sunt, immo homines”
Se è fino al XIX secolo che prosegue la schiavitù degli africani, quello del maltrattamento degli schiavi è un problema tanto antico da essere reperibile nella numero 47 delle Epistole dell’autore latino Seneca. L’invito di uno tra i più grandi classici latini è quello a considerare il versante umano dei sottoposti: sono servi, dunque uomini, scrive. Non si tratta di animali da lavoro, ma di esseri umani, che in quanto tali dipendono dallo stesso destino che governa chi può ritenersi padrone.
“Con piacere ho saputo da coloro che vengono da te che tu vivi familiarmente con i tuoi schiavi: questo si addice alla tua saggezza, questo alla tua educazione. “Sono schiavi.” Anzi, uomini. “Sono schiavi”. Anzi, compagni di vita. “Sono schiavi.” Anzi, umili amici. “Sono schiavi.” Anzi, compagni di schiavitù, se terrai presente che altrettanto è concesso alla sorte nei confronti di entrambi. Quindi rido di costoro che ritengono disdicevole cenare col proprio schiavo: per quale motivo, se non perché una superbissima consuetudine ha collocato una folla di schiavi che stanno in piedi attorno al padrone che cena? […] E poi si cita un proverbio della stessa arroganza, cioè che ci sono altrettanti nemici che schiavi: non li abbiamo nemici, ma li rendiamo. Tralascio per ora altri comportamenti crudeli, disumani, per il fatto che ne abusiamo neppure come uomini, ma come bestie. […] Non voglio cacciarmi in un argomento impegnativo e discutere del trattamento degli schiavi, verso i quali siamo estremamente superbi, crudeli, offensivi. Questa tuttavia è la sintesi del mio insegnamento: vivi col tuo inferiore nel modo in cui vorresti che il superiore vivesse con te. Ogni volta che ti verrà in mente quanto ti è concesso nei confronti del tuo schiavo, ti venga in mente che altrettanto è concesso al tuo padrone verso di te. “Ma io” dici “non ho nessun padrone.” La tua età è buona: forse lo avrai.”
Forte contro debole
Cos’è che ha spinto e spinge, nei secoli, a riservare un atteggiamento diverso nei confronti di chi è ritenuto più debole? Si tratta della vecchia e nota legge del più forte o di un innato istinto alla brutalità? Uno studio come quello del legame genetico è utile per poter realizzare a pieno le conseguenze di un evento storico che ha ancora oggi delle ripercussioni a livello sociale – come il contemporaneo movimento Black Lives Matter. Le parole di Seneca invece, come sempre, costituiscono degli autentici spunti di riflessione: se è vero che siamo tutti sottoposti ad un unico ed incognito destino, possiamo davvero parlare di diversità?