La storia del mondo, come ci insegna Marx, è divenuta sin dai prodromi della società umana una storia di lotte tra individui, gruppi, classi.
Sin da quando più persone iniziarono a unirsi per formare piccoli gruppi sociali volti ad una affermazione individuale e collettiva, cominciarono ad affiorare i primi germi di una tendenza centrifuga dalle caratteristiche opposte: la disparità e la conseguente lotta di classe.
La genesi del confronto sociale nella Roma arcaica
Quando si tratta un argomento come quello della distinzione tra classi e della disomogenea distribuzione di beni (qualsiasi tipo di ricchezza più o meno materiale la parola “bene” sottenda) generatrice di tale divisone, il punto di partenza ritengo che debba essere ricercato in una più generale analisi del dualismo nel momento in cui esso si insinua all’interno di un precedente stato di omogeneità. Nel verificarsi di una situazione di questo tipo, è inutile dire che lo stato precedente delle cose non può più essere mantenuto e risulta essenziale trovare un nuovo equilibrio che possa far sì che l’elemento perturbante possa inserirsi senza provocare sconvolgimenti su larga scala. Nel caso in cui ciò non avvenga, le conseguenze possono essere distruttive e l’unico modo per tentare di risolvere una situazione di questo tipo è il completo annientamento di uno dei due elementi tra essi inconciliabili. Ecco che il mondo romano, con la sua storia tanto intricata e affascinante, ci viene in aiuto perché ci offre il modello concreto per eccellenza di tale dinamica che ho provato a sintetizzare in poche righe. La scuola, sin dai tempi dell’istruzione elementare, ci ha insegnato che la società romana era basata su una distinzione tra due grandi classi sociali note come patrizi e plebei, il cui scontro fu alla base degli sviluppi storici della Roma di età repubblicana. Tuttavia, se non risaliamo ai prodromi di tale divisione e alle modalità tramite le quali sono emersi questi due elementi, la nostra visione risulta fortemente semplicistica e astratta, alienata da quelle dinamiche che costituiscono il fondamento di qualsiasi visione storica. Di conseguenza, riprendendo quelle categorie di omogeneità e dualismo di cui ho parlato poc’anzi, è necessario porre il punto di partenza per il discorso sulla divisione sociale della Roma repubblicana nella nascita di gruppi fortemente omogenei, che si formarono ancor prima della genesi di Roma-“città stato”. L’Urbs, infatti, al momento della sua fondazione, non era un vero e proprio nucleo urbano, ma era popolata da gruppi di famiglie che, riconoscendosi in un antenato comune e in un culto familiare, si univano e formavano gruppi gentilizi noti come “gentes”. Questi ultimi, grazie al possesso di terre e al dominio che cominciarono ad instaurare su gruppi più deboli, si estesero a macchia d’olio e tutto ciò fu possibile grazie al sistema clientelare, una sorta di contratto siglato tra un patronus ed un cliens: il cliente riceveva protezione da parte del suo superiore, in cambio della quale forniva a quest’ultimo corvées lavorative e sostegno militare. Di conseguenza, quando sui libri di storia leggiamo dei grandi re di Roma della prima fase della monarchia, dal fondatore Romolo fino a Anco Marzio, periodo che abbraccia quasi due secoli, il modello che dobbiamo tener presente è proprio quest’omogeneo istituto squisitamente “patrizio” basato sulla gens, in cui il re stesso aveva come sua base di potere la gens della quale faceva parte.
La frammentazione sociale nella Roma “etrusca”: la nascita della plebe
Questa situazione che potremmo definire di “omogeneità aristocratica” sembra cominciare a mutare nel VI secolo, quando, come ci testimonia l’archeologia, accanto ai grandi palazzi dei principes gentilizi e alle maestose necropoli dell’Italia centrale, si cominciò ad assistere a qualcosa di profondamente diverso rispetto al passato, un qualcosa destinato a cambiare per sempre la storia di Roma. Nell’Urbs, infatti, assistiamo alla penetrazione di nuovi gruppi minori e individui che, alla ricerca di protezione, sicurezza, condizioni di vita migliori, diedero il via ad un ingrossamento delle fila dei ceti urbani e così, sin dal regno del primo re etrusco Tarquinio Prisco, assistiamo ad un indebolimento del controllo gentilizio e alla nascita di nuove tendenze che potremmo definire “isonomiche”, in virtù del diverso peso sociale ed economico di queste nuove classi intermedie che avevano cominciato a popolare la Roma gentilizia di età arcaica. Ecco che con Servio Tullio abbiamo la prima riferma centuriata volta a modificare totalmente l’inquadramento politico e militare della società romana e la nascita di una prima “moneta” necessaria per una città che si stava aprendo a nuove istanze commerciali, artigianali, mercantili, grazie alla presenza di uomini non più alla mercé della prepotenza aristocratica. Tuttavia, la condizione di questi ceti, rappresentati per lo più da stranieri e subalterni, era fortemente precaria perché totalmente basata sulla crescita dell’economia, una crescita che necessitava di un’espansione continua e che non ammetteva pause, pena la crisi più totale. È proprio ciò che successe agli inizi del V secolo, quando il malessere delle classi precarie cominciò a crescere e si tramutò in una crisi sociale ed economica dalle dimensioni esponenziali, il tutto dovuto anche all’opposizione delle gentes aristocratiche, che cominciarono nuovamente a far sentire la propria voce e la propria volontà di controllo della vita pubblica. È su queste basi che i piccoli commercianti, gli artigiani, gli stranieri, i subalterni cominciarono a fare fronte comune all’interno di un nuovo organismo sociale destinato di lì in avanti a fare la storia di Roma: la plebe, gruppo eterogeneo derivante da un processo economico ormai sopito e costretto a proteggere la propria libertà dalle angherie dei patrizi. Riprendendo il modello di dinamiche sociali cui ho accennato in fase di introduzione, l’esempio di Roma appare ora un chiaro esempio di come tale modello si concretizzi nella realtà dei fatti: un’iniziale omogeneità dovuta alla presenza di un unico elemento, nel nostro caso la gens, alle cui mani è affidato il controllo dell’intera società aristocratica; la penetrazione di un secondo elemento “disgregatore” che è altro rispetto al primo, se non l’opposto; la necessità di trovare un equilibrio tra i due elementi, che nella Roma di VI secolo si esplica nel minor controllo da parte dei gruppi gentilizi sulla società; infine, la perdita dell’equilibrio genera la disgregazione sociale e vi è la concretizzazione di quel dualismo che nella Roma di V secolo, ma non solo, è rappresentato dallo scontro tra gli antichi patrizi e la nuova classe “rivoltosa” che è la plebe.
Parasite, la lucida rappresentazione di una realtà duale
Quando un film, ancor di più una commedia, riesce a sfruttare le sue potenzialità creative al massimo grado per rappresentare, all’interno della finzione narrativa, uno spaccato di vita reale denudato da ogni tipo di filtro significa che esso è riuscito in un duplice scopo: quello artistico, ma soprattutto quello umano. È ciò che è riuscito a fare Bong Joon-Ho dando vita ad un vero e proprio capolavoro cinematografico tramite la regia di Parasite, film coreano vincitore di ben quattro premi Oscar nella 94esima edizione dell’Academy Aword e che lascerà di certo parlare di sé nei decenni a venire. La pellicola è incentrata su un geniale piano architettato dalla famiglia coreana dei Kim con il fine di uscire dal sudicio seminterrato in cui abitano, infestato da scarafaggi e dal sudiciume più totale, per farsi largo nella sfarzosa tenuta di una ricca famiglia coreana, i Park, dipinti dal regista con le peculiari caratteristiche ambivalenti che porta con sé la ricchezza: un marito bello, dinamico, ma assente, una moglie che grazie alle facoltà economiche può permettersi il lusso dell’ingenuità che la contraddistingue, una figlia adolescente in tempesta ormonale e un bimbo segnato da un trauma infantile. E così, in un quadro così semplice e paradossale, in una commedia che potrebbe dai primi minuti del film apparire sciocca e “leggera”, il regista pone dinnanzi ai nostri occhi la più cruda realtà umana: l’esistenza di due mondi speculari e allo stesso tempo opposti, la città umida e marcia del seminterrato e quella del comfort e del benessere della nobile villa. Ma cosa succede quando le abitudini dei poveri entrano in contatto e si insinuano nella vita quotidiana, nelle abitudini, nei pensieri stessi dei ricchi? È proprio questa la domanda alla quale Joon-Ho cerca di dare una risposta e lo fa nel modo più disincantato possibile, tramite una commedia che all’improvviso sembra quasi trasformarsi in un horror, il quale a sua volta confluisce nelle fasi finali in una pellicola drammatica a tutti gli effetti che assume di tanto in tanto tratti grotteschi. Di opere che trattano l’argomento delle disparità sociali ce ne sono state e ce ne saranno a bizzeffe, ma quello che Parasite riesce a compiere è un qualcosa di mai visto, ovvero raccontare la lotta sociale senza i classici slogan triti e ritriti, senza le classiche bandiere, senza operai, falci e martelli, ma nel modo più genuino che l’essere umano conosca: la risata, portatrice di verità e puro svago. Hollywood può solo imparare di fronte ad un’opera di questa portata che, possa piacere o no, non lascia di certo indifferente chiunque abbia deciso di spendere due ore nella visione di una lotta di classe fatta davvero con grande classe.