Parlare di depressione non è mai facile, ma Leonard Michaels in “Sylvia” e Lars Von Trier in “Melancholia” ci riescono brillantemente, in maniera vera e pungente.
Il file rouge che unisce romanzo e film, totalmente diversi tra loro per periodo storico, stile ed intenti, è il racconto della depressione, mostrata come forza ineluttabile che risucchia verso le viscere della Terra, dalla quale non si può sfuggire.
Convivere con la depressione
“Oggi è assurdo parlare di felicità”
Diceva Kris Kelvin in “Solaris“, il capolavoro di Tarkovskij, datato 1972, e infatti non è di felicità che si parla in “Sylvia”, così come in “Melancholia”. L’unico modo per poter trattare di depressione è viverla, sentirla, sulla propria pelle, nelle proprie ossa- come per Lars Von Trier, il provocatorio regista danese; o vederla con i propri occhi consumare qualcuno a noi vicino, come per Leonard Michaels, che assiste alla malattia e al suicidio di Sylvia, la sua prima moglie. È una discesa lenta e faticosa quella nell’abisso, e per addentrarci al suo interno bisogna abbracciare l’oscurità senza averne paura, osservarla e non cercarne una causa, ma comprenderne le conseguenze.
Il baratro di Sylvia
“Sylvia” è un libro che fa male, che ferisce ad ogni parola e che lascia il retrogusto della sconfitta nel finale. Non sempre ci sono battaglie che si possono vincere, ma ci sono battaglie dalle quali sicuramente si impara qualcosa: è il ricordo l’intento primario del libro. “Sylvia” nasce, dunque, come un memoir, una ricerca disperata e critica della prima crepa nella relazione tra autore e protagonista. Cosa è successo? Perché non sono riuscito a farla stare meglio? È stata colpa mia? È una disamina straziante e attenta quella dello scrittore, che con malinconia e rimpianto, ripercorre la sua tormentata storia d’amore. Su Sylvia aleggiava già in principio l’ombra della depressione, che si presenta giorno dopo giorno sempre più forte e densa, cupa, pronta a trascinare la ragazza nella solitudine, nell’incapacità di mostrarsi al marito. È un amore solitario quello di Sylvia, che spende tutto il suo tempo con Leonard, ma che non gli permetterà mai di lasciarlo entrare nel suo mondo o di tirarla fuori da quest’ultimo. Con una scrittura intensa e sincera Sylvia è un romanzo superbo, con angoscia e dolcezza è una storia capace di raccontare amore e follia insieme alla caduta libera in un precipizio, che risucchia verso il basso, attira ineluttabile verso l’oblio e le viscere della terra.
Il pianeta Melancholia
Ed è nel terreno marcio che si sprofonda in “Melancholia” di Von Trier. Il film, che è il capitolo centrale di quella “Trilogia della depressione” che è un trittico di film perfettamente riusciti e compiuti del regista, si apre- come gli altri- con un prologo di 8 minuti, dove viene condensato il senso stesso del film. È la celebrazione del senso del terrore questa iniziale rappresentazione metaforica, calcolata di ogni dettaglio e flessione, in una composizione delle immagini, rallentate e virate nei colori, che rievoca immediatamente e apertamente la pittura. Rasentando le logiche dell’incubo in una stridente intensità che accorda una fotografia sontuosa al prologo al “Tristano e Isotta” di Wagner, Von Trier ci offre un’ouverture grandiosa e solenne che non lascia spazio a speranze alcune: piogge di uccelli morenti, piedi che affondano in questo terreno marcio e ormai morto, il pianeta Melancholia che infine distrugge la Terra.
È così che Von Trier condensa la depressione: come un pianeta che si avvicina inevitabilmente verso la Terra, i cui abitanti non possono fare altro che accettare il loro triste destino. Paragone brillante ed efficace: la depressione, così come il pianeta, si abbatte sulla propria vittima senza lasciarle scampo, ma la lascia sola a crogiolarsi nell’impotenza e nell’impossibilità di una via d’uscita.
Ed infatti, vie d’uscita Von Trier non ce ne offre, ma con la storia delle due sorelle Justine e Claire, che rappresentano rispettivamente l’incapacità di essere felici e l’inevitabilità della morte, ci accompagna in un viaggio intenso, dove si sprofonda sempre di più verso il basso, e si accetta stoicamente il proprio destino, dal quale non si può sfuggire.