L’essere umano, prima ancora di essere un animale sociale, è un individuo a sé e, come tale, può vivere in modi fortemente ambivalenti il rapporto con ciò che lo circonda.
All’interno di un’epoca storica, ma ancor di più di una determinata società, di un gruppo, di una classe sociale, sono soliti nascere degli ideali e dei valori condivisi dai membri che ne fanno parte. Le spinte contrarie, però, non mancano quasi mai e costituiscono spesso un grido salvifico.
L’elegia latina ed il rifiuto del mos maiorum
Uno dei mondi maggiormente ancorati ad ideali e costumi ben precisi e codificati fu senz’altro quello latino, in cui il rispetto per tali costumi era indicato con il nome di “mos maiorum” e comprendeva valori quali il coraggio, la lealtà, la giustizia, il rispetto nei confronti degli dei e molti altri. Il personaggio che incarnava più di chiunque altro il prototipo dell’uomo in cui confluiscono le virtù della romanità era Enea e, non a caso, la scena dell’Eneide in cui l’eroe troiano si carica sulle spalle il vecchio padre Anchise in fuga dalle fiamme di Troia è diventata col tempo, per citare Orazio, un monumento più duraturo del bronzo. Nella Roma di più di 2000 anni fa, il genere ritenuto il miglior contenitore possibile nel quale far risplendere e beatificare questi valori condivisi era senz’altro quello epico, dal momento che l’epica rappresentava il genere letterario maggiormente adatto a narrare vicende politiche, militari, mitiche, ritenute dai Romani le uniche occupazioni degne del vero civis Romanus. Il genere epico, inoltre, veniva spesso anche sfruttato dagli uomini di potere che, accogliendo sotto la propria ala protettrice i più grandi letterati dell’epoca, facevano in modo che per mezzo della celebrazione di miti religiosi e civili del passato venisse glorificato e sostenuto il proprio programma politico. È il caso di Augusto, che cercò di restaurare i costumi degli antichi tramite delle specifiche leggi, le cosiddette leges Iuliae, che prevedevano un ritorno alla moralità della famiglia tramite la proibizione di ogni tipo di adulterio, pena l’esilio, oltre all’obbligo di matrimonio entro i giusti limiti di età e di classe sociale. Tuttavia, fu proprio nell’ambito di questo periodo di restaurazione e di volontà di soppressione di ogni tendenza estranea a determinati dettami che il mondo romano conobbe un qualcosa di completamente nuovo e rivoluzionario. Ecco che nella seconda metà del I secolo d.C. cominciò ad essere praticato a Roma, su impulso della poesia ellenistica, un genere letterario fino ad allora sconosciuto alla tradizionalistica società romana: l‘elegia. Già a partire dal titolo si può dire qualcosa sulla novità di tale genere: elegia, infatti, deriva probabilmente dalla parola greca “èlegos”, che indicava un canto di lamento accompagnato dall’aulòs e caratterizzato da uno specifico metro noto come distico elegiaco. Pur nascendo come canto funebre, con il trascorrere del tempo l’elegia cambiò i suoi connotati e già nel mondo greco si specializzò come canto d’amore, per poi approdare anche nel mondo latino con queste caratteristiche. Ecco che l’amore e l’eros si sostituiscono alla politica e alla guerra, il distico elegiaco all’esametro, i valori sociali cedono il posto a quelli puramente individuali. Il poeta elegiaco scardina completamente il modo di intendere il fare poetico e il fulcro vitale, non soltanto del componimento poetico ma anche della vita del poeta stesso, diventa l’amore per una sola donna, celebrata quasi come una divinità. Poeti come Tibullo, Properzio e Ovidio, sebbene quest’ultimo con alcuni tratti distintivi, raccontarono nei loro componimenti storie d’amore struggenti e fortemente dolorose poiché l’amore vissuto dal poeta elegiaco non è mai un amore semplice e risponde a dei canoni ben precisi: la donna amata, che assume i caratteri di una domina, è spesso una donna dai facili costumi, circondata da molteplici spasimanti, incline all’infedeltà e difficile da conquistare. Il poeta diventa duqnue suo servus, si annulla completamente per essa abbandonandosi ad un’esistenza condotta ai margini della società, nota presso i Romani con il termine di nequitia. Tutto ciò portava naturalmente il poeta elegiaco ad essere oggetto di disprezzo e biasimo perché considerato un oppositore ai costumi fondanti la società romana. Il suo impegno morale, disperdendosi nella passione amorosa, viene meno e con esso anche l’essenza del civis Romanus. Eppure, una rivoluzione come quella operata dai poeti elegiaci fu di vitale importanza e avrebbe rappresentato nei secoli a venire uno snodo cruciale per l’evoluzione della lirica d’amore anche di età moderna.
Una figura che non lascia indifferenti: David Bowie e l’ipocrisia della “normalità”
L’8 Gennaio è un giorno che dovremmo tutti tenere a mente perché in questa data, ben 73 anni fa, nasceva uno dei personaggi più rivoluzionari ed iconici della storia della musica mondiale: David Roger Jones, meglio noto come David Bowie. Protagonista indiscusso della scena musicale degli ultimi 40 anni del XX secolo, Bowie ha rappresentato uno snodo decisivo non solo a livello artistico, ma anche e sopratutto umano e sociale, diventando uno dei più grandi protagonisti della rivoluzione sessuale, della moda e dei costumi dell’ultimo secolo. Quante cose sarebbero cambiate da quel lontano gennaio del 1972, quando per la prima volta l’artista londinese apparve sulla copertina dell’album “The rise and Fall of Ziggy Stardust” nei panni di quella creatura aliena e glamour che poi mise in scena nei suoi tour e che sarebbe diventata uno dei volti più riconoscibili e iconici del panorama artistico. Quell’album, infatti, ebbe talmente tanto successo che la Bbc fu costretta a portare in milioni di case l’immagine di una creatura nuova, strana, che sparigliava il gusto corrente e faceva bella mostra di sé con la sua diversità espressa senza remore e con quell’ambiguità sessuale che in un’epoca ancora fortemente chiusa poteva suscitare forte scandalo. Ecco che, quando ci imbattiamo in una figura così particolare e totalizzante come quella del Duca bianco, bisogna fare uno sforzo non indifferente perché ci troviamo nella condizione in cui leggere il testo di una canzone non ci dice nulla se l’ascolto non è inserito all’interno dell’eccentrico (mai questo termine può essere utilizzato con un’accezione così positiva come quando si parla di Bowie) mondo creato dal performer, un vero e proprio artista totale che ha ridefinito i confini della performance musicale e stravolto la forma della canzone.
Per me la musica è il colore. Non il dipinto. La mia musica mi permette di dipingere me stesso.
Is there life on Mars?: il sogno come unica possibilità di sopravvivenza
Uno dei brani più celebri ma anche più oscuri del Duca bianco è senz’altro “Life on Mars?”, il cui testo ha dato vita a molteplici interrogativi e interpretazioni. Per rispettare la personalità e lo stile di Bowie ritengo che il modo migliore per approcciarci ad una canzone di questo tipo sia quello di lasciarci trasportare dalle sue parole e provare ad entrare nel mondo in cui l’artista vuole trascinarci, senza l’uso di troppe sovrastrutture dettate da fattori esterni che potrebbero solo condizionare il piacere dell’ascolto e, perché no, anche della visione. Registra nell’Aprile del 1971 ai Trident Studios di Londra, “Life in Mars?” è incentrata sulla figura di una “ragazza dai capelli color topo” (the girl with the mousy hair), un’adolescente come tutte le altre che si sente sempre più delusa e tradita dalla realtà che la circonda, una realtà vuota e deprimente che smorza ogni tipo di sogno e speranza e toglie ai giovani la possibilità di volgere lo sguardo verso il futuro. Il mondo esterno è guardato dalla ragazza con occhi esterrefatti, quasi impossibilitati nella comprensione di come gli uomini possano non accorgersi della precarietà e della vuotezza della vita che stanno vivendo, vita che viene definita “freakiest show”, lo spettacolo più bizzarro di tutti. Ecco che Marte diventa l’ultima ancora di salvataggio per la giovane, una realtà fittizia vista come unica via di fuga. Ma questo pianeta, questa realtà diversa da quella contingente esiste davvero? Poco importa, Bowie non aveva intenzione di cercare un appiglio reale e solido alla precarietà del mondo che ci circonda perché questo appiglio non esiste, non è un qualcosa di concreto, ma può essere ricercato solo nel sogno, nell’immaginazione di ciascuno di noi, nella speranza che in un posto lontano ed ignoto possa esistere una realtà parallela che non opprime l’uomo, che non lo rende un automa, che non lo racchiude nella gabbia delle convenzioni sociali… che lo faccia insomma essere uomo, senza troppe pretese. Ecco che Marte diventa a mio parere quello che per Leopardi poteva rappresentare il suo caro infinito, quello che per gli uomini rappresenta la fanciullezza, quello che per Bowie rappresentano i suoi costumi così tanto appariscenti quanto straziantemente reali e veri: l’illusione che ci rende dannatamente vivi. Forse Marte non c’è, forse vita su quel pianeta non ci potrà mai essere, ma possiamo provare a camminare il più possibile vicino ad esso, nella piacevole immaginazione della sua presenza. E allora, anche se da quel triste 10 Gennaio del 2016 il mondo ha perso una pedina dal peso di un re e nulla è più lo stesso, traiamo esempio da David Bowie, sogniamo, amiamo, illudiamoci… insomma, viviamo. Grazie David.