Inquadrature sensazionali, un montaggio sui generis ed un protagonista dalla psiche complessa, scopriamo i segreti della pellicola di Orson Welles.
Un giudizio all’unisono da parte dei critici cinematografici non è mai esistito e mai esisterà, ma con “Quarto potere” ci si è avvicinati all’unanimità nel definirlo il più grande film di tutti i tempi, scopriamone i motivi.
“QUARTO POTERE” TRA I FILM PIU’ GRANDI DI TUTTI I TEMPI
Nell’approcciarci allo studio della storia del cinema, non a caso definita come settima arte, sorge spontaneo chiederci come si possa considerare, e quindi analizzare, un film: una pellicola cinematografica può essere studiata o per la sua eccellenza intrinseca, vale a dire come opera monumentale, capolavoro di originalità e innovazione tecnica o documento storico della sua epoca, oppure si può considerare un film per la sua influenza; ad esempio, un film come “Psyco” di Hitchcock non è dotato di eccellenza intrinseca ma ha influenzato notevolmente il filone dell’horror o del giallo da esso originatosi. Un film capolavoro, cult movie e dalla fortissima eccellenza intrinseca è invece “Quarto potere” (“Citizen Kane” in lingua originale) firmato Orson Welles e datato 1941. Al tempo di Welles il regista era soggiogato dalla figura del producer che decideva delle sorti del film in modo da trarvi il maggior guadagno possibile. Il 21 luglio 1939 Welles firmò un contratto con RKO senza precedenti, beneficiando di un’autonomia quasi completa che gli permise di esprimere il suo estro creativo nella pellicola che ottenne ben nove nomination agli Oscar. Celebrato dal critico cinematografico André Bazin come film del tutto moderno, “Quarto potere” è l’emblema di un’opera creata da un artista, da considerarsi come l’equivalente di uno scritto di Balzac: contiene infatti una profonda critica rivolta alla società. L’opera si può leggere come una biografia di Charles Foster Kane, chiaramente ispirato al magnante della stampa William Randolph Hearts che, infatti, fece causa e boicottò l’uscita della pellicola.

“IO SONO UN’AUTORITA’ SU COME FAR PENSARE LE PERSONE”
Il film racconta la storia del cittadino C. F. Kane a ritroso, tramite cinque flashback retrospettivi. Partendo dalla sua morte, la storia è narrata grazie alle interviste e le testimonianze di chi gli fu vicino, delineando subito un intricato labirinto dal quale sarà impossibile uscire e comprendere la personalità di Kane. La prima parola che sentiamo è anche l’ultima pronunciata dal protagonista sul letto di morte: “Rosebud”, “Rosabella” nella versione italiana. Il signor Thompson, un giornalista, guiderà lo spettatore alla ricerca del significato di questa parola; secondo Borges “Oppressivamente, infinitamente, Orson Welles esibisce frammenti della vita dell’uomo Charles Foster Kane e ci invita a combinarli e a ricostruirlo. […] Alla fine comprendiamo che i frammenti non sono retti da una segreta unità: l’aborrito Charles Foster Kane è un simulacro, un caos di apparenze”. Il primo flashback è dato dalla lettura, da parte del giornalista Thompson, delle memorie di un banchiere ormai deceduto che racconta dell’infanzia di Kane: i genitori del bambino decisero di affidarlo al banchiere per salvarlo da una vita di povertà. E’ lo stesso banchiere poi a ricordare che, nel momento in cui al piccolo Kane venne annunciata la decisione, egli stava giocando con uno slittino che scagliò contro il banchiere stesso in segno di protesta. La perdita dell’infanzia, l’allontanamento da casa del bambino, corrispondono anche al passaggio dell’America dall’età “pura” dei pionieri a quella di Wall Street: in questo senso la madre di Kane rappresenterebbe perfettamente l’etica puritana del sacrificio. I successivi quattro flashback sono dati dalle interviste del braccio destro, del migliore amico, della seconda moglie e del maggiordomo di Kane. Tutti raccontano un episodio della vita del magnante ricordando la sua manipolazione pubblica circa la guerra ispano-americana, il matrimonio con la prima moglie, Emily Norton, la relazione extraconiugale con la cantante Susan Alexander, che gli valse la carriera politica, il matrimonio ed il successivo divorzio con Susan e altri episodi che ci rendono impossibile ricomporre i pezzi e delineare la personalità complessa di Kane. Significativo è il racconto del maggiordomo che narra di come, dopo il divorzio dalla seconda moglie, Kane fosse stato preso da un impeto d’ira e avesse iniziato a distruggere la camera: lenzuola strappate, libri buttati all’aria, mobili deturpati, mensole staccate, l’impeto di Kane si arrestò improvvisamente nel vedere una palla di neve che egli prese in mano dicendo ancora una volta “Rosabella”. Il giornalista non saprà mai cosa significa quella parola, ma lo spettatore sì. Nella villa del defunto Kane, i suoi beni vengono catalogati e, quelli ritenuti inutili, bruciati, è così che, dopo una lunga inquadratura sui tanti oggetti che l’uomo ha accumulato senza mai gettare, vediamo bruciare in una fornace lo slittino con cui Kane giocava da bambino, che riporta la scritta di “Rosabella” incisa sul legno.
LEZIONE DI CINEMA CON CHARLES FOSTER KANE
L’analisi dello stile tiene conto della tipica narrazione di Welles: il ricorso alla profondità di campo, che mette a fuoco vari piani dell’immagine contemporaneamente, come possiamo vedere nella sequenza riguardante l’infanzia di Kane. Alla profondità di campo si aggiunge l’angolazione dal basso e la lateralità del grandangolo, con la messa in campo dei soffitti che, nelle ultime sequenze, sembrano così sovrastare e schiacciare i personaggi, restituendo un forte senso di oppressione. E’ da sottolineare che la profondità di campo e il piano-sequenza, permettono la costruzione nell’immagine di diversi elementi semantici entro i quali lo spettatore è libero di muoversi e soffermarsi, dal momento che la narrazione non è guidata in modo univoco tramite la successione di piani come voleva il sistema classico. L’opera apparve al tempo originale ma anche estremamente bizzarra e Welles fu per questo accusato di formalismo, di voler dunque solo stupire lo spettatore. Bazin ha spiegato come non ci sia nulla di bizzarro ma si voglia unicamente mantenere la scena intatta tramite profondità di campo e long take che, secondo il critico cinematografico, danno vita ad un meccanismo ontologico basato sull’ambiguità del reale, incapace di catalogare Kane come “buono” o “cattivo” ma descrivendo una complessa e problematica personalità.
