Passato e futuro… due mondi così diversi da apparire inconciliabili, ma che se indagati dalla giusta prospettiva rivelano un unico grande disegno.
Due epoche diverse, due pensieri diversi, due campi di indagine diversi… eppure Poggio Bracciolini e Steve Jobs ci danno la possibilità di comprendere un’unica grandiosa verità e di accostare mondi all’apparenza separati in nome di ciò che fa vivere davvero: la ricerca.
La ricerca del passato in età rinascimentale
Sin dai primordi della civiltà, l’uomo ha spesso avuto la pretesa di ragionare secondo quello che in gergo tecnico è noto come “pensiero dicotomico”: si tende a dividere con un taglio netto la realtà in luce e ombra, bello e brutto, giusto e sbagliato, cancellando la complessità, l’ambiguità, le sfumature e ogni possibile trait d’union tra due opposti. Questa tendenza si acuisce fortemente se ci immergiamo nel delicatissimo campo dell’opposizione tra quelle scienze che mirano alla ricostruzione dell’antico e quelle in cui la ricerca è maggiormente volta al futuro. E se si potesse smontare una dicotomia così arida e infruttifera? Cosa succederebbe se questi due mondi così diversi potessero avvalersi l’uno dell’apporto dell’altro in modo da creare quell’interculturalità spesso ricercata e bramata dai ricercatori? Per compiere questa succinta analisi, compiamo un tuffo nel passato e spostiamoci a ben 600 anni fa quando, strano a dirsi, la scoperta di un semplice manoscritto avrebbe cambiato per sempre il corso della storia. Ma può un libro cambiare il corso degli eventi? Andiamo per gradi. Siamo in un periodo in cui le porte dell’età moderna si stavano finalmente aprendo lasciando alle spalle quell’età spesso esageratamente vilipesa nota col nome di Medioevo. Seppur gli storici collochino l’inizio dell’età moderna nel 1492, anno in cui avvenne la famigerata scoperta dell’America per mano di Cristoforo Colombo, i germi di un cambiamento radicale cominciarono a farsi sentire già molti anni prima e, in ambito letterario, figure come quelle di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio furono precorritrici di quell’interesse nei confronti dell’antico che costituì il tratto fondante di tutto l’Umanesimo e il Rinascimento europeo. Già in epoca carolingia l’interesse nei confronti del mondo antico si era fortemente diffusa, ma solo in quest’ epoca i classici, e tutto ciò che in essi vi era scritto, divennero un modello di vita tout court, di lingua, di stile, di idee. Tale interesse non era prerogativa dei soli circoli intellettuali, ma raggiunse anche i circoli del potere: ecco che, tra la fine del Trecento e gli inizi del Quattrocento, prese il via una vera e propria caccia agli scrittori antichi che portò intellettuali provenienti da ogni parte d’Europa in terre lontane e mai calcate. I luoghi di caccia per eccellenza erano i monasteri poiché solo in queste grandi strutture religiose, durante il recesso culturale che aveva caratterizzato il Medioevo, i testi degli scrittori latini e greci continuarono ad essere copiati, studiati, trasmessi e di conseguenza sottratti all’oblio del tempo. Ed è proprio qui che prende le mosse la storia di uno dei più grandi cacciatori dell’antichità della storia, la cui figura è stata talmente vitale da divenire quasi leggendaria: l’umanista Poggio Bracciolini.
I denti del tempo: quando Poggio Bracciolini fece rivivere un mondo sepolto
Siamo nel 1417 quando, durante il concilio di Costanza, Baldassarre Cossa, meglio noto come papa Giovanni XXIII, venne deposto, lasciando così il suo fidato segretario apostolico, un tale
Poggio Bracciolini, senza lavoro e senza padrone. Da allora in poi, lo spirito di ricercatore che aveva caratterizzato il giovane umanista anche nel corso della carriera ecclesiastica si intensificò sempre di più e ciò lo portò, tra il 1415 e il 1418, in biblioteche fino ad allora per gran parte inesplorate di monasteri e cattedrali francesi, svizzere, tedesche. Ecco che nel giugno e nei primi di luglio del 1416 lo troviamo a San Gallo, dove trasse alla luce un manoscritto contenente il testo completo delle Institutiones oratoriae di Quintiliano. A San Gallo sarebbe poi tornato anche nel gennaio del 1417 finché, nella primavera dello stesso anno, non giunse a Fulda, una sperduta cittadina tedesca, dove avrebbe sottratto dall’oblio il testo che lo avrebbe consacrato per l’eternità. Il convento, situato in un’area strategica della Germania centrale, aveva tutte quelle caratteristiche che sollecitavano un ricercatore di libri: era antico, ricco, in passato aveva avuto un’illustre tradizione di studio. Una volta smontato da cavallo e varcata la possente porta dell’abbazia, Poggio avrà sicuramente visto le stie per i polli, le greggi al pascolo, i mulini e i frantoi, tutte cose tipiche di un monastero dell’epoca. Giunto poi nei pressi della grande basilica e del chiostro adiacente, sarà stato poi sicuramente condotto dall’abate, nelle mani del quale vi era il comando dell’intera struttura (nel 1417 l’abate di Fulda era Johann von Merlau) e da cui si sarà lasciato condurre a visitare la basilica, le preziose reliquie di San Bonifacio, le ossa del santo che nel 754 era stato massacrato dai frisoni, finché non si sarà infine deciso ad esporre il vero scopo della sua visita. Fattagli strada dal bibliotecario, sarà stato condotto in una spaziosa stanza ricoperta da un alone di mistero e piena di tomi immensi consumati dal tempo, che sporgevano dagli scaffali. Consultò Tertulliano, poi una serie di antichi autori Romani, aprì un poema epico di circa quattordicimila versi sulla guerra tra Roma e Cartagine di cui forse riconobbe il nome dell’autore, Silio Italico. Anche i più piccoli di quei rinvenimenti erano di enorme interesse per Poggio perché, per un umanista quale egli era, il semplice fatto che un qualcosa tornasse alla luce dopo così tanto tempo aveva un che di miracoloso. Ed ecco che infine, rovistando qua e là tra i vari tomi impolverati, non si sarà trovato davanti un lungo poema in esametri, di cui forse aveva solo visto menzionare l’autore nell’opera di Quintiliano o in quella di San Girolamo, e che recava in copertina le seguenti parole: T. LUCRETII CARI DE RERUM NATURA. Chissà se già da quella veloce scorsa al tomo Poggio si era accorto che, negli anni a venire, un semplice volume, quello stesso volume che lui stava salvando dall’oblio in cui era caduto tra le mura del convento, avrebbe demolito completamente il suo mondo.
Steve Jobs: un uomo vissuto nel futuro
This is an iPod, a phone, and an internet communicator. An iPod, a phone … are you getting it? These are not three separate devices: this is one device, and we are calling it iPhone
Sono trascorsi ben 13 anni anni da quando, in una fredda giornata di gennaio del 2007, venne presentato al Macworld di San Francisco un device che avrebbe cambiato per sempre, nel bene e nel male, le vite di tutti noi. Quel giorno, sul palco di quella grande struttura californiana, salì un uomo del posto, sulla cinquantina, girocollo nero e scarpe da ginnastica d’ordinanza, che già dal solo sguardo colmo di mistero lasciava sottintendere qualcosa di geniale e che nella precedente decade aveva fatto ampiamente parlare di sé per le idee visionarie e a volte folli che non si era mai sottratto di manifestare. Il suo nome era Steven Paul Jones, meglio noto come Steve Jobs, il device era l’iPhone di prima generazione, e quel giorno non sarebbe trascorso inosservato come una normale giornata invernale. “Ma è un semplice telefonino!”, diranno i più. Come biasimarli… il problema è che dietro quel semplice telefonino c’è molto di più, c’è un’idea visionaria, una lotta personale contro quella ‘confort zone’ in cui spesso ci richiudiamo per paura del giudizio altrui, c’è la voglia di emergere, c’è insomma un modo di vivere dal cui esempio non possiamo far altro che trarre giovamento. E cosa fece Jobs per realizzare questa rivoluzione? Una mossa così semplice a pensarla oggi quanto geniale per l’epoca: eliminò la tastiera ed ampliò lo spazio per le immagini creando un immenso schermo su cui utilizzare le dita, “il miglior puntatore con cui siamo nati”. E così, da quel momento in poi, una semplice idea fiorita nella mente di un visionario avrebbe modificato totalmente il modo di intendere la telefonia e tutte le aziende avrebbero tratto spunto da quel dispositivo perché troppo rivoluzionario per poter tentare di innovare con qualcosa di diverso. Ma perché mettere insieme due figure così apparentemente antitetiche come Poggio Bracciolini e Steve Jobs, il cui accostamento fa quasi sorridere? Ebbene, qui non stiamo parlando di libri antichi, né la nostra attenzione è rivolta ad un banale cellulare, tutti elementi che servono semplicemente a dare qualche sfumatura di colore alla nostra peregrinatio vitae. Ciò che invece conta davvero è il processo mentale presente dietro tutto ciò, quel processo che fa sì che un grande uomo trovi la sua completa realizzazione nella produzione di un qualcosa che fino ad allora era sconosciuto, in modo da poter affermare di aver dato il suo contributo, piccolo o grande che sia, al mondo, prima che le tenebre lo conducano negli oscuri recessi dell’Ade. “Oggi reinventiamo il telefono” disse Steve Jobs. “Oggi il De Rerum Natura di Tito Lucrezio Caro è stato sottratto alle tenebre a Fulda” avrà detto Poggio Bracciolini. E cosa diremo noi che sarà ricordato dai posteri? Forse non saremo capaci di scoperte così grandi, ma perché non provarci, perché non metterci in gioco? D’altronde una seconda vita non è concessa a nessuno, possiamo solo provare a rendere irripetibile ogni singolo istante di quella che ci è toccata in sorte, senza accontentarci di essere semplici pedine di un mosaico, ma emergendo da quel mosaico e ricercare, bramare, sorprenderci.