L’amore per la vita e il vuoto dell’incertezza
A chi ci si rivolge quando si dice; “ti amo”? La persona amata, che ci accompagna per la vita è il riflesso dell’aspettativa di un desiderio inatteso ma comunque persistente, o si tratta di una realtà tangibile che del desiderio si fa scudo? L’amore è un tema dibattuto, trito e ritrito ma dalle molteplici sfumature;
L’uomo felice malgrado l’incertezza
“Com’era bella un tempo, quella cosa. Non me ricordo che… Però era bella. Mi sforzo, ma rimane misteriosa. Pure se penso solamente a quella. E la domanda è sempre più angosciosa, che d’era? La famiglia, mia sorella, un poveraccio o un abito da sposa? La gente, un fiore…? Che ne so… Una stella? La Guerra? No, davvero… Cos’era, una canzone o forse una poesia? (…)”
Con il “decamerino” Proietti ci insegnava che si possono amare molte cose e tale volontà la espresse più volte irradiando teatri con un sonetto destinato a scaldare i nostri cuori anche dopo la sua scomparsa, quello delle “Cose Perdute”. In questo tributo l’amore espresso non era quello di un eros fisico e nemmeno liminale; bensì era amore per la vita. Nelle Cose Perdute viene raccontato di un amore per qualcosa di dimenticato, tanto fuggente dalla memoria da apparire con molteplici forme come l’affetto per una sorella, o la gioia di un abito da sposa; passando dal volto della fanciullezza alla rimembranza di un passato vissuto nell’amore per tutte le piccole cose. L’amore però, assume nelle meraviglie dialettiche di un artista intramontabile, anche un ruolo più passivo; se nelle Cose Perdute abbiamo imparato il dono della vita seguendo gli occhi meravigliati di un adulto mai pago di emozioni, è in “Questo Amore” che l’erotizzazione della vita assume ora contorni più definiti;
“Questo amore malato, denutrito, fatto di parole smozzicate, (…) Questo amore buttato in pasto al popolo ignorante come fosse una cosa interessante, corrotto dalla noia dei grandi amatori della storia, masticato da cento letterati, vomitato da principi, prelati (…)”
Apparentemente cinico, brutalmente caustico, un amore che perdona le sue stesse contraddizioni. Un amore, secondo Gigi, sedotto dal linguaggio dei poeti, come una persona che sceglie il miglior pretendente che possa meritarla e si lascia corteggiare dal “bello” presupponendo che la bellezza includa necessariamente anche l’animo. Perché in amore vince sempre la bellezza, persino sulla sostanza di ciò che del sentimento rende paghi. Ma ciò che a primo impatto appare subito evidente è l’incertezza di questo amore denutrito, che sebbene cerchi la bellezza illudendosi del suo valore, non sa ancora quello che sta davvero cercando. Le Cose Perdute parlavano di ricordi, talmente incisi nel sentimento da oltrepassare persino i viali della memoria e quando si introduceva dicendo; “Com’era bella quella cosa…”, veleggiando incontro alla nostalgia, vedevamo quasi il tramonto di un uomo felice, talmente pago e sazio della vita da non avere nemmeno più bisogno di ricordare cosa lo avesse reso tanto felice. Questo Amore è illuso, malgrado il finto cinismo, tanto quanto lo erano Le Cose Perdute, perché vi è sempre il desiderio di un ritorno, di un motivo. Un pretesto che basti a giustificare l’ingordigia di volerlo vivere;
“E’ un amore di fradicia letizia, che assolve tutti!”
E infatti per questo amore non c’è musica che tenga, lo dice anche Gigi, rinunciando momentaneamente alle sue voglie. Se dunque l’anima rimane addormentata prima che questo vuoto ci colga, ci si auspica che venga presto il tempo in cui ci si innamori, perché d’amore si ha bisogno per vivere e seppur con dolore, questa sofferenza è necessaria pur di non essere consumati dal vuoto di questa terribile incertezza. Perché l’amore assolve tutti, persino l’ingiustizia.
Quando Galimberti parla di amore, il suo amore è una necessità che dà corpo e luce alla rappresentazione stessa di vita; non per niente ci racconta di un amore “vivente”, che si pasce di sensazioni diverse.
L’amore come chimera domestica; la passione della ricerca e il desiderio della rinuncia
La psicologia ci insegna che spesso in “amore”, cerchiamo partner che riflettano i nostri stessi stimoli, ma è improprio definire l’amore attraverso un concetto unico e universale. Ogni psicologo o psicanalista ha a suo tempo dato diverse interpretazione dell’eros attingendo direttamente dal pozzo vasto e incerto della filosofia. Nel caso del professor Galimberti, alla teoria psicanalitica ispirata agli studi junghiani, dal pozzo è stato tirato fuori il Simposio di Platone, a detta del professore come il miglior testo mai scritto che meglio racchiuda e sintetizzi il concetto di amore. Proietti ci insegnava l’amore per la vita e a non sprofondare nel cinismo arido dello sconforto laddove quest’ultimo appariva più incerto, mentre Galimberti ci insegna a vedere l’amore non più come una scelta ma come una creatura con specifici desideri e capricci da assecondare; come un figlio per la madre, se ve la sentite di definirlo tale o un partner molto esigente. Insomma, “amore” è il terzo componente nella diade di coppia ed esige attenzioni e cura da parte di entrambi i suoi “genitori”.
“L’amore è la seconda potenza. Non è soltanto una facoltà o una dimensione di sentimento”
Presto detto; se io amo qualcuno lo capisco molto meglio di quanto potrei fare se non mi interessasse della sua persona; ciò avviene perché l’amore non si limita a riflettere l’aspettativa o i desideri dell’altro ma è l’amore stesso ad avere delle esigenze cui prestare attenzione. L’eros di Galimberti è una creatura docile all’apparenza ma mai paga della sua quotidianità; non si ricicla, ma si inventa giorno per giorno, nutrendosi del pericolo e del mistero, dell’idealizzazione e del giocondo desiderio di appartenenza. Questa creatura non ama la vita, ma la consuma, ne assorbe a spugna ogni granello e infine spurga ciò che a lungo tempo ha accumulato; siano esse cose positive o cose negative. Dunque l’amore non è amore perché esiste all’infuori della ragione, ma è tale perché necessita di cure, di armonia, di sacralità e impegno che non tutti (e giustamente) sono disposti a dedicare. Non esistono inni alla vita senza laude di morte e nella medesima maniera in cui l’amore si innesca dalla fantasia può dissiparsi nell’amarezza della passività.
Jung sostenne che l’amore è possibile perché la nostra coscienza è “divisa”, priva di parti che trovano riscontro solo nella corruzione del desiderio e che quindi siamo in costante ricerca di un intero che possa rappresentarci.
Il binomio della follia, amore e imprevedibilità
Fuori di testa come tutte quelle follie che si fanno per amore e che ci raccontano i poeti. Quando tutti cercano di razionalizzare l’amore e spiegarci quali regole seguire, Galimberti ci ricorda invece che l’interrogativo corretto risale a ben prima che qualcuno avesse avuto la pazienza di documentarlo, annoverando i primi uomini come i primi “ricercatori” del piacere, ci parla della possessività dell’amore, di come questa sia spesso impropriamente confusa con l’appartenenza e ci rammenta, in un secolo che ci dà la fortuna di poterlo confutare, la volubilità dei sentimenti dinanzi alla ricerca costante di appartenenza, con conseguente accettazione della rinuncia pur di non abbandonare le proprie certezze e i propri “porti sicuri”. Se a suo tempo Sigmund Freud si interrogò circa i sacrifici che si è disposti a fare per amare ed essere amati, Galimberti ci risponde in un modo che molti sentiranno proprio, dicendo che “amare” comporta un prezzo ben diverso dal desiderare di farlo. In amore non esistono certezze; puoi amare la vita in ogni sua forma, dal cinema al teatro, puoi goderti la frenetica ascesa del desiderio che si consuma con la persona con cui deciderai di condividere un percorso, ma non puoi scegliere di amare o decidere di non farlo; il vero amore si espleta nella perdita di controllo e nell’imprevedibilità, nel lutto della ragione, nell’accoglimento della follia. Una rinuncia grave e sentita che talvolta, ad opinione comune, non vale il prezzo del biglietto e un horror vacui nel cui baratro sembra difficile guardare e sentirsi invogliati al salto. Se il sonetto delle Cose Perdute si adattasse al desiderio nella sua forma lata, forse oggi l’amore avrebbe confini più definiti, ma più probabilmente no. Forse Proietti avrebbe comunque venerato la vita dedicandole parole di miele. Forse l’amore sta alla vita come sosteneva Freud; alla pulsione e alla deriva.
L’unica certezza è che per Galimberti e per molti di noi, incluso il nostro Gigi, si tratta solo di un compromesso pericoloso, ma per cui vale sempre la pena spendersi.