Irriverente, pionieristica e costantemente alla ricerca di nuove idee per i propri film: ad oggi Erika Hallqvist – dai più conosciuta con il nome d’arte di Erika Lust – vanta una carriera come produttrice e regista pluripremiata in tutto il mondo, che in quasi quindici anni ha collezionato un centinaio di cortometraggi e quattro pellicole lunghe. Fin qui tutto abbastanza comune, direte. Ma non del tutto: l’habitat naturale all’interno del quale Lust quotidianamente pronuncia il “ciack” iniziale è infatti quello del porno femminista.

Un cinema a luci rosse ideato da donne con l’obiettivo di soddisfare altre donne: questo è il leitmotiv dei lavori della nota regista svedese, che per tutta la sua carriera ha cercato di rivoluzionare il mondo del piacere femminile, scardinando le regole stereotipate e spesso inverosimili attraverso cui l’industria dei film per adulti personifica il gentil sesso. Già dall’età di quindici anni – quando per la prima volta vide il suo primo film pornografico – insieme all’eccitazione del momento Erika Lust ammette di non essere riuscita a reprimere il senso di colpa, sintomo di qualcosa di profondamente sbagliato e svalutante nell’ancora sconosciuto cinema hot.
A dare forma ai pensieri dell’adolescente – ormai divenuti quelli di una giovane donna alla ricerca di risposte – furono poi gli studi universitari e il contatto con il femminismo, che portarono la produttrice cinematografica ad interrogarsi sul ruolo sociale della donna, sui pregiudizi circa la libertà sessuale femminile e soprattutto sull’evidente differenza tra uomini e donne in fatto di confini sessuali. Ma, più di tutto, una domanda le ronzava in testa: “perché il porno è destinato solo a un pubblico maschile come se alle donne non piacesse il sesso?”
Quello che le donne non dicono (o non possono dire)
Così come il fantacalcio, gli sport estremi e il sedile del guidatore di qualsiasi automobile, anche il porno è sempre stato considerato dalla maggior parte degli uomini un mondo off-limits per le donne: un motivo in più, agli occhi di Erika Lust, per dimostrare che non solo il sesso piace alle donne tanto quanto agli uomini, ma che esiste anche un modo completamente nuovo di trattarlo, abbandonando tutti quei machismi e finti orgasmi che ne costellano le clip erotiche.
Terminati gli studi in Scienze Politiche e femminismo presso l’Università di Lund, nel 2004 venne così il momento per la regista di mettere su carta (o meglio, su pellicola) il suo primo corto, intitolato “The Good Girl” e premiato al festival del cinema erotico di Barcellona, dando ufficialmente il via al suo inno al porno non più a luci rosse, ma… rosa.
“Davanti all’espressione ‘porno femminista’ molti si spaventano” avrebbe raccontato la regista durante un’intervista per Il Fatto Quotidiano. “Credono che il femminismo sia contro il genere maschile. Invece il concetto più puro di femminismo riguarda il rispetto di tutti, delle donne come degli uomini. Possiamo chiamarlo come vogliamo: porno etico, indipendente o d’avanguardia”.
Che sia quindi un ammonimento a tutte quelle donne che invece apprezzano il “porno tradizionale”? Per niente. Stando a quanto affermato sempre dalla regista ai microfoni di Vice, infatti, “giusto e sbagliato non esistono, basta che per quella donna sia eccitante. Il sesso serve a molte persone per esplorare situazioni o parti di sé che non esplorerebbero altrimenti. Alcune donne che nella vita quotidiana si sentono forti e indipendenti magari si sentono eccitate dall’opposto, perché dà loro la sensazione di avere infranto le regole. Non vuol dire che è meno femminista, vuol dire che è un essere umano e ha dei desideri”.
“Don’t Call Me a Dick”
Al di là delle etichette, delle categorie e delle differenze con il passato, ciò che contraddistingue la pornografia femminista di Lust è proprio questo: un totale abbandono delle regole, privo di dogmi ed aperto al piacere di tutti, senza però scadere nella banalità di proposte preconfezionate, scontate e poco realistiche, ma piuttosto aggiungendo come ingrediente in più “sensazioni, scene e punti di vista che finora erano passati inosservati o in secondo piano”. Un chiaro esempio di questa filosofia lo si vede in “Don’t Call Me a Dick”, il più recente tra i cortometraggi di art-feminist-porn firmato da Erika Lust e realizzato in collaborazione con Olympe De G. Per tutti gli undici minuti della clip cinematografica, la regista si è infatti concentrata sul trasformare la donna da “oggetto” a “soggetto” del piacere, promuovendo un’uguaglianza silenziosa che, se non coltivata ed insegnata a dovere, potrebbe portare non pochi danni, soprattutto al pubblico più giovane.

La donna e l’oggettificazione nel porno
Stando a quanto emerso da uno studio recentemente condotto da Malvina N. Skorska, Gordon Hodson e Mark R. Hoffarth, l’ampio dibattito sui potenziali effetti nocivi dell’esposizione alla pornografia per il pubblico maschile potrebbe infatti non essere del tutto infondato. A farne un primo accenno era già stata la letteratura attuale, la quale suggeriva l’associazione tra l’uso eterosessuale della pornografia da parte degli uomini e la nascita di atteggiamenti e comportamenti negativi nei confronti delle donne. Tuttavia, l’esigua quantità di ricerche volte all’esame di queste variabili non avevano mai permesso di giungere a conclusioni soddisfacenti. Fino ad oggi.

Nello studio sopracitato, infatti, sono state indagate due diverse forme di pornografia: una prima definita “degradante” e rappresentativa di una totale oggettificazione e de-umanizzazione della donna seppur non necessariamente violenta; e una seconda forma semplicemente “erotica” e di conseguenza non degradante e consensuale. Ad essere sottoposti alla visione di piccoli spezzoni, della durata di dieci minuti ciascuno, sono stati 82 studenti universitari, assegnati in modo casuale alle condizioni degradante, erotica o ad una terza condizione di controllo (visione di notizie non correlate al sesso). Al termine della visione da parte dei soggetti sono così state effettuate le misure di diverse variabili, tra cui eccitazione sessuale soggettiva, percezione oggettuale della donna, sessismo ambivalente e discriminazione nei confronti della figura dell’attrice pornografica.
I risultati hanno dimostrato che l’esposizione all’erotismo (rispetto al degrado) genera una minor oggettificazione del corpo femminile e limita la sua de-umanizzazione, pur mostrando maggiori livelli di discriminazione nei confronti dell’attrice porno rispetto alla condizione di controllo. Allo stesso tempo, l’esposizione alla pornografia degradante (contro l’erotismo o il controllo) ha generato le più forti convinzioni sessiste ostili e la più grande quantità di oggettificazione della donna: un’ulteriore prova a conferma del fatto che non sia l’uso della pornografia in sé ad essere generalmente dannoso o innocuo, ma piuttosto la tipologia di tali film a luci rosse, per i quali quindi la “rieducazione femminista” inaugurata da Erika Lust potrebbe rivelarsi la svolta.
Francesca Amato