Il mito di Orfeo ed Euridice viene rovesciato da Pavese e raccontato da un punto di vista tutt’altro che romantico.
Si è sempre pensato ad Orfeo come allo sciagurato innamorato che non ha potuto fare a meno di voltarsi per cercare la sua sposa, ma Pavese ci mostra quanto il gesto del voltarsi sia frutto di una decisione consapevole.
E ALL’IMPROVVISO LA “DEMENTIA” PERVASE L’INCAUTO AMANTE
Poche storie sono tragiche quanto quella di Orfeo e la sua Euridice: questo mito ci accompagna da secoli trattando tematiche di cui la totale comprensione è preclusa all’uomo, quali amore, morte e vita. In questa struggente trama il mitico cantore dalla dolce lira, Orfeo, vede scomparire l’amata sposa Euridice a causa del veleno di un serpente che la morse mentre tentava la fuga dal pastore Aristeo che, invaghitosi di lei, voleva farla sua. Le lacrime ed il dolore di Orfeo, accompagnati dalla magia del suo canto vincono gli animi degli dei degli inferi che concedono al giovane di ricondurre l’amata sulla terra, a patto che non volga lo sguardo indietro prima di essere uscito dall’Ade. Orfeo, sceso fino allo Stige e scampati i pericoli dell’oltretomba, riesce a commuovere con il suo canto non solo Ade e Persefone, signori dell’oltretomba, ma anche le Furie implacabili e Cerbero; Il giovane non riesce però a resistere alla tentazione di voltarsi per controllare che Euridice sia veramente con lui: e così, ad un passo dalla soglia che divide il regno dei vivi da quello dei morti, Orfeo può godere di un fugace sguardo alla sua amata, prima di perderla per sempre. “Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero (di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?); per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.” Così conclude la tragica storia Ovidio che, per primo, narrò questa vicenda nelle “Metamorfosi”, poi riprese dalle “Georgiche” in cui Virgilio, tramite la figura di Orfeo, istituisce un parallelismo con il poeta ed infine elevate ad opera lirica per mano del compositore Christoph Willibald Gluck.
IL RAPPORTO DIRETTO CON IL MITO CERCA UNO SBOCCO ANTROPOLOGICO
Un autore che fu sempre affascinato ed ossessionato dal mito fu Pavese, da lui considerato come una forma storica insita nell’uomo sin dalle sue origini, egli spiega infatti che “Un mito è sempre simbolico: per questo non ha mai un significato univoco, allegorico, ma vive di una vita incapsulata che, a seconda del terreno e dell’umore che l’avvolge, può esplodere nelle più diverse e molteplici fioriture”. E’ così che dall’incontro del mondo greco e quello intellettuale novecentesco hanno origine, nel 1947, gli enigmatici “Dialoghi con Leucò”, basati sul modello dei dialoghi di Platone risalenti al V secolo a.C., si compongono di 27 brevi storie narrate tra eroi o creature mitologiche e la giovane Leucotea. Pavese si rifà alla Grecia classica, patria della cultura e del mito, entro la quale affondano le radici della consapevolezza europea, per riprenderne i modelli ed i nuclei narrativi e portare avanti un’opera di “attualizzazione del mito” volta al tentativo di ricostruire quell’unità tanto interiore quanto esteriore che allora era stata distrutta dalla guerra.
“IO CERCAVO BEN ALTRO LAGGIU’ CHE IL SUO AMORE”
Nel dialogo de “L’inconsolabile” Pavese riporta il mito di Orfeo ed Euridice rovesciandolo: secondo l’autore, infatti, Orfeo non si sarebbe recato nell’aldilà per cercare di riportare in vita Euridice ma per cercare se stesso. Nel dialogo Orfeo esplicita chiaramente il desiderio di lasciarsi il passato alle spalle: “Euridice morendo divenne altra cosa”, è così che questi capisce di dovere lasciare rivivere l’amata soltanto nei suoi ricordi felici e non fisicamente insieme a lui poiché, anche facendo ritorno nel regno dei viventi, avrebbe abitato in lei un alito di morte che non poteva celare il fatto che il suo sangue era già stato conosciuto dall’oltretomba. Nell’attimo estatico in cui Orfeo scorge quella finestra naturale che separa i regni di morte e vita egli matura la sua decisione di non voler vivere con uno spettro, portando a compimento il viaggio che lo ha allontanato per sempre da Euridice per avvicinarlo a se stesso; è così che l’eroe arriva ad asserire senza lacrime e senza rimpianti che “Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.”