Questo articolo analizza le opere di Pier Paolo Pasolini e Carlo Levi, focalizzandosi su Poesie a Casarsa e Cristo si è fermato a Eboli, esaminando la rappresentazione dei contadini e il legame con la terra.
Le opere di Pier Paolo Pasolini e Carlo Levi, Poesie a Casarsa e Cristo si è fermato a Eboli, offrono uno spaccato potente e poetico del mondo rurale italiano del Novecento. Entrambi gli autori hanno indagato la vita dei contadini, mettendo in luce l’isolamento, la povertà e il profondo rapporto con la terra. In questo articolo esploreremo come Pasolini e Levi abbiano rappresentato queste realtà, includendo citazioni tratte dai loro lavori per dare maggior rilievo alle loro voci.
Pasolini e i contadini friulani: tra nostalgia e perdita
In Poesie a Casarsa (1942), Pasolini utilizza il friulano, una lingua quasi dimenticata al di fuori della sua regione d’origine, anche per sottolineare la connessione tra l’autore e la terra. Tuttavia, sotto una prima apparente superficie bucolica, si avverte una sottile malinconia, quasi un senso di perdita incombente: i contadini friulani che popolano le sue poesie e racconti sono immersi in una vita scandita dai cicli naturali, in cui la terra è al tempo stesso fonte di sostentamento e di prigionia Per Pasolini, la terra friulana è il simbolo di una purezza originaria, ma anche di una condizione di immobilità storica e culturale. I contadini sono parte di un mondo che resiste alla modernità, ma che è destinato a scomparire. In questo contesto, Pasolini non idealizza i suoi protagonisti; al contrario, mostra la loro marginalizzazione, l’isolamento e la fatica di una vita che rimane ai margini della società italiana del tempo.
In una mattina dell’estate del 1941 io stavo sul poggiolo esterno di legno della casa di mia madre. Il sole dolce e forte del Friuli batteva su tutto quel caro materiale rustico… […] Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo mi interruppi subito. (…) E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni.
Una lingua che diventa non solo espressione della sua eredità culturale, ma anche uno strumento di resistenza contro l’omologazione della cultura dominante. La terra friulana e i suoi abitanti diventano emblemi di una battaglia tra autenticità e modernità.
Carlo Levi e i contadini lucani: denuncia e dignità
Se Pasolini si concentra sulla nostalgia per un mondo che sta svanendo, Carlo Levi, in Cristo si è fermato a Eboli (1945), affronta la condizione dei contadini lucani con un’analisi sociale e politica più diretta. Durante l’esilio in Lucania, Levi diventa testimone di una realtà sconvolgente: i contadini vivono in un isolamento quasi totale, lontani dalla modernità e dimenticati dallo Stato. La sua opera è una denuncia dell’abbandono che il Sud italiano subisce da parte delle istituzioni, ma è anche una riflessione sull’immobilità e sulla rassegnazione che caratterizzano la vita di queste popolazioni. Una delle citazioni più significative di Cristo si è fermato a Eboli è:
“Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né la speranza, né la storia” (Levi, C. 1945, p. 3).
Questa frase sottolinea il senso di rimozione che permea la vita dei contadini lucani, un’esistenza che sembra al di fuori della storia e del progresso. In questo mondo, la speranza e la trasformazione sociale sono entità sconosciute, e la vita quotidiana è scandita dalla fatica e dalla miseria. Levi non si limita a denunciare la miseria materiale, ma si sofferma anche sulla spiritualità della vita contadina. Scrive: “Non c’è stato mai nulla per loro, eccetto la fatica senza riposo, una fatica che non conosce altra ricompensa che la sopravvivenza” (Levi, 1945, p. 43). Questa fatica è il motore di una vita che non conosce cambiamento, ma che trova comunque nella resistenza quotidiana una forma di dignità. Nonostante la miseria, i contadini lucani mantengono una forza interiore che Levi rispetta e ammira. La religiosità popolare in Lucania, che Levi descrive come un intreccio tra sacro e profano, è un altro aspetto che emerge dal suo racconto. I contadini sono “pre-cristiani”, come scrive Levi: “Essi sono contadini, non cristiani: essi sono pre-cristiani, come la loro religione, in cui tutto è natura, forza maligna o benefica, e mai storia” (Levi, 1945, p. 14). La spiritualità lucana è profondamente legata alla terra, una terra che, pur nella sua durezza, rimane sacra per chi la lavora, segno di una resistenza che è più culturale che economica.
Confronto tra Pasolini e Levi: linguaggio e simbolismo della terra
Pasolini e Levi, pur trattando tematiche simili, adottano due approcci distinti per raccontare la condizione dei contadini. Pasolini, con Poesie a Casarsa, utilizza il friulano come strumento linguistico di resistenza, ma anche come veicolo di una nostalgia che si fa elegia della sua terra. La lingua friulana non è solo lingua dialettale, ma un simbolo di una cultura che lotta per sopravvivere nell’epoca della globalizzazione e della modernizzazione. Levi, d’altro canto, usa una lingua italiana più sobria e diretta, ma la sua opera è altrettanto impregnata di simbolismo. La miseria dei contadini lucani non è solo il prodotto di un isolamento geografico, ma anche il segno di una frattura sociale e politica che lo Stato italiano non ha mai colmato. Levi denuncia l’impoverimento materiale, ma non dimentica di esprimere una forma di rispetto per la dignità di chi vive in quella condizione.