Oltre il disastro: scopriamo le voci inascoltate del Vajont e le denunce del rischio idrogeologico

A sessant’anni dalla catastrofe, riflettiamo sull’importanza della corretta valutazione del rischio idrogeologico.

General map of the Vajont disaster as published in Semenza, 2010 (pp ...

Quello del Vajont è stato definito come uno dei più gravi disastri ambientali evitabili ed è stato annoverato tra i peggiori esempi di gestione del territorio (Anno internazionale della Terra, rapporto ONU) a causa della scarsa comprensione della morfologia territoriale e della sottovalutazione del rischio di frana; si è parlato di “fallimento di ingegneri e geologi”, di una fatale disattenzione, di un tragico errore oppure di un’eccessiva ambizione, di corruzione, di un intervento complice delle istituzioni, del predominio di interessi privati, di un’inarrestabile avidità, di una colpevole occultazione dei documenti… Perché -in fondo- i rilevamenti idrogeologici erano stati fatti, ma non vennero tenuti in considerazione; e molte persone avevano denunciato la pericola instabilità del monte Toc, ma non furono ascoltate.

Un disastro prevedibile?

Già nel 1929 la valle del torrente Vajont fu ritenuta idonea per la realizzazione di una piccola diga, il cui progetto originario (successivamente ampliato) fu approvato nel 1943. La diga venne costruita, poi, tra il 1957 e il 1960, sui progetti dell’ingegnere Carlo Semenza. Si trattava di una struttura avanguardistica per l’epoca, molto più imponente di quella progettata inizialmente, un capolavoro dell’ingegneria moderna, inserito nel sistema del “Grande Vajont”: era la diga ad arco più alta del mondo con i suoi 262 metri.

Fu realizzata per produrre energia idro-elettrica su volontà della SADE (Società Adriatica di Elettricità) in una zona che, però, non era morfologicamente adatta ad accogliere un’infrastruttura simile, a causa dell’alto rischio di frane, smottamenti e fenomeni sismici.

Nel 1959 una frana (3 milioni di metri cubi di roccia) interessò la vicina diga di Pontesei, la SADE allora intensificò i controlli per escludere ulteriori incidenti di quel tipo: le analisi rilevarono la presenza di una paleofrana sul monte Toc; e, difatti, pochi mesi dopo, nel novembre del 1960, si verificò una piccola frana (700 000 metri cubi di roccia) nel bacino del Vajont.

Il disastro del Vajont - 1963 - CeRVEnE

La tragedia

Oltre ai risultati delle perizie idrogeologiche, vi erano stati due evidenti campanelli d’allarme (frane del ’59 e del ’60), deliberatamente ignorati o quanto meno decisamente sottostimati; poiché in realtà, almeno in un primo momento, si cercò di rallentare lo scivolamento progressivo del terreno, gestendo il riempimento del bacino, abbassando e alzando il livello di acqua. Tuttavia, ciò non bastò.

Il 9 ottobre 1963  alle ore 22:39 un enorme blocco di terra di 400 metri si staccò dal versante settentrionale del Monte Toc, provocando una frana di 270 milioni di metri cubi di roccia, che cadendo nel lago artificiale ad una velocità di 100 km/h generò un’onda alta più di cento metri. Tale onda oltrepassò la diga e inondò completamente la valle sottostante: più di dieci centri abitati, tra paesi e frazioni, furono travolti dall’acqua, dal fango e dai massi; morirono più di 1900 persone.

Interi paesi furono spazzati via, come Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè; la diga però rimase in piedi.

Belluno e il suo Dna: la storia di Tina Merlin - Corriere delle alpi

Una voce inascoltata

Dopo i primi segnali di cedimento della montagna, la frana del 1959 e quella del ’60, la scoperta della paleofrana e dell’instabilità dei versanti del Toc e i preoccupanti risultati dei rilevamenti idrogeologici, la paura di un’imminente catastrofe attanagliava sempre di più gli abitanti della valle del Vajont. I loro comitati, i loro appelli alla SADE e alle autorità furono vani, le loro voci rimasero inascoltate.

Tra le voci di denuncia emerse soprattutto quella della giornalista e partigiana Tina Merlin (1926-1991) che per anni provò a evidenziare e rendere noti la possibilità di una frana, i rischi geologici della zona della valle e del montagna. Per i suoi scritti, venne accusata di aver diffuso “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.

Merlin continuò imperterrita a ricercare, a scrivere, a informare i cittadini, a denunciare il rischio idrogeologico, le irregolarità e le malefatte di coloro che fecero di tutto pur di portare avanti l’ambizioso progetto, non approfondendo la situazione dell’assetto morfologico del territorio e sottovalutando il pericolo delle frane.

Anche dopo la tragedia, Merlin continuò a scavare, per gettare luce su quanto accadde e per capire se effettivamente quella tragedia immane poteva essere evitata.

Oggi tuttavia non si può soltanto piangere, è tempo di imparare qualcosa.

Scrive il 10 ottobre del ’63, il giorno dopo la catastrofe.

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