Odio gli indifferenti: secondo Rousseau e Gramsci la politica ha bisogno di te!


Ci dice Aristotele che l’uomo è, per natura, un “animale politico”. La politica, proprio in quanto peculiarietà dell’uomo è fondamentalmente una creazione artificiale, figlia del nostro logos, che esplicita la nostra naturale tendenza a essere-in-comune. La politica ha però fondamentalmente una doppia natura. Essa è come abbiamo visto pratica dell’essere-in-comune, dall’altra però non può esistere politica senza pòlemos, ovvero senza conflitto: la politica è per sua essenza conflitto tra parti, tra idee. Tuttavia non è nemmeno giusto ridurre la politica alla mera fatticità: essa non è mai figlia di ciò che è, ma di ciò che potrebbe o dovrebbe essere. In questo senso essa incarna un’altra caratteristica fondamentale dello spirito umano, ovvero quella che ci spinge a desiderare, piuttosto che a ripiegarci sulla fatticità. E’ per questo motivo che la politica è sempre rivolta al futuro. Se analizziamo le grandi “categorie del politico”, ovvero i modi di pensare che hanno caratterizzato il pensiero e la pratica politica dell’occidente, vediamo che concetti come rivoluzione, liberazione e progresso hanno tutti una base nel futuro.

Ad oggi però la situazione sembra essere cambiata. Il nostro presente si configura come piatto e infinito: il grande sviluppo delle tecniche e delle scienze, per loro essenza rivolte verso la comprensione-manipolazione di ciò che è, sembra essersi trasposto anche alla politica che, priva di un “sol dell’avvenire” non può che ridursi a mera regolamentazione della contingenza che via via entra nel sistema, perdendo da un lato quel valore sociale dell’essere-in-comune giacchè essa sembra occuparsi sempre meno della socialità degli individui e della loro integrazione. Sembra dall’altro essere molto presente l’elemento di politica come pòlemos, tuttavia questa conflittualità non riesce ad essere inquadrata in una dialettica di superamento, proprio a causa del venire meno del terzo fondamentale “esistenziale”, per dirla con il lessico di Heidegger, della politica: l’essere-nel-futuro.

Questo dominio della fatticità, ideologicamente rappresentato da quella che oggi è definita tecnocrazia, ha avuto come conseguenza quello di allontanare gli uomini dalla politica, rendendola indipendente e trasformandola in un mostro freddo dotato di vita propria nei confronti del quale noi ci sentiamo impotenti. Forse è il caso di ricordarci che, come detto prima, la politica è fondamentalmente una nostra creazione: piuttosto che una prerogativa degli stati, il fare politica è una prerogativa dei singoli uomini. Gramsci e Rousseau, in tempi non sospetti, ci avevano messo in guardia da questo pericolo.

La critica Rousseauiana è diretta a quella che noi oggi chiamiamo “democrazia rappresentativa”, che è il sistema di governo più comune in occidente. Rousseau parte da un assunto: la sovranità è inalienabile e appartiene al popolo intero. La nascita dunque della democrazia rappresentativa è però intrinsecamente legata, per Rousseau, a uno Stato che è già corrotto al suo interno. Infatti gli uomini “a forza di pigrizia e di danaro finiscono con l’avere dei soldati per asservire la patria e dei rappresentanti per venderla.” La parte interessante del discorso di Rousseau, è che questa corruzione dello stato ha motivi estremamente materiali. Poiché “a cambiare in denaro le prestazioni personali sono le preoccupazioni del commercio e delle arti, l’avido interesse di guadagno.” Rousseau coglie un punto che è oggi attualissimo: la sottomissione della politica all’economia, o meglio, la predilezione dell’uomo per i suoi affari privati piuttosto che per quelli pubblici. Nella democrazia rappresentativa l’uomo “è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento; appena avvenuta l’elezione, è schiavo.”

Quella di Rousseau non è solo una critica a un sistema politico, tra l’altro ai suoi tempi anche poco diffuso. Egli vuole mettere in luce la necessità di un impegno sociale e politico: affermare che la sovranità appartiene al popolo e che essa è inalienabile e indivisibile, significa non ammettere l’indifferenza, significa presupporre che in uno stato retto, quando c’è da prendere una decisione importante per la collettività, “tutti abbiano le ali ai piedi”.

“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Queste sono le memorabili parole che Antonio Gramsci scrisse su “la città futura” nel 1917.  L’inizio dell’articolo è emblematico. Gramsci mette in luce come la vita sia scelta e oppone la partigianeria, termine che ovviamente non ha ancora nulla a che vedere con la resistenza della seconda guerra mondiale ma indica soltanto la volontà di schierarsi, di scegliere, all’indifferenza. Quest’ultima è appunto “abulia”, dal greco, incapacità di volere. La vita per Gramsci è dunque rivoluzione; esse coincidono e non potrebbe essere diversamente. Rivoluzione per il nativo di Ales non significa solo Lotta di Classe e dittatura del proletariato. Essa è innanzitutto la capacità dell’uomo di schierarsi, perchè la scelta implica il coraggio. “L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza.” L’uomo che non sceglie, che non si rivolta ma accetta tutto passivamente è dunque per Gramsci sintomo di quella mancanza di coscienza di classe da lui tanto invocata. L’uomo indifferente inoltre ha secondo Gramsci un atteggiamento che lui stesso definisce piagnisteo da eterni innocenti e in pochi effettivamente si chiedono “se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?” Da questo articolo di Gramsci si evince dunque tutta la carica rivoluzionaria del suo pensiero, carica che deve essere prima intellettuale e poi sociale. La rivoluzione sociale non può nascere senza prima una rivoluzione culturale, che a sua volta non può esistere senza l’eliminazione dell’indifferenza.

 

Nella nostra attualità, l’indifferenza, “il peso morto della storia”, sono molto presenti e persistono sul nostro presente. La comodità, unita alle tante delusioni che la politica ci ha regalato negli ultimi anni ci hanno purtroppo resi indifferenti ma tuttavia, come scrive Rousseau nel “ discorso sull’origine della disuguaglianza” citando Thomas Jefferson, dovremmo tornare a dire . “ preferisco il tumulto della libertà che la pace della servitù”

 

Giuseppe De Ruvo

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