L’8 marzo 1917, a San Pietroburgo, le donne della capitale guidarono una manifestazione che rivendicava la fine della guerra. Quattro anni più tardi (14 giugno 1921), La seconda Conferenza internazionale delle donne comuniste fissò l’8 marzo come giornata internazionale dell’operaia. Al contrario di come dicono molte “leggende”, che vedono l’inizio della ricorrenza dovuto ad una tragedia in una fabbrica di New York o ad una repressione da parte della polizia di una manifestazione di operaie (sempre a New York), è questa la reale origine della festa, celebrata in Italia per la prima volta (nella data dell’8 marzo) nel 1945 per iniziativa dell’UDI (Unione Donne in Italia), anche se l’ufficializzazione come Giornata Internazionale delle Donne venne fatta solo il 16 dicembre 1977. La mimosa, regalo simbolo di tale evento, è un’usanza tutta italiana iniziata l’8 marzo 1946 su iniziativa delle politiche Teresa Noce, Rita Montagnana e Teresa Mattei. Ogni anno dunque, alcuni con sincerità altri con ipocrisia, si festeggia questa ricorrenza, tuttavia il messaggio che questa vuole trasmettere, è molto più ampio e complesso. Molte volte infatti, le manifestanti si sono fatte carico anche di altri temi molto importanti per la società (ad esempio i diritti per gli omosessuali) facendo apparire la festa come un baluardo per tutti i generi oppressi.
Che cos’è il genere
Quando si affronta questo tema, occorre tener presente che non si parla solo di uno specifico genere, ma si parla sempre delle relazioni che si vengono a creare fra i generi. Si distingue dunque in sesso, ovvero le differenze anatomiche e fisiologiche che caratterizzano i corpi maschili e femminili, e in genere, per il quale si intendono tutte le differenze socialmente costruite fra i due sessi e i rapporti che si instaurano fra essi. Quest’ultimo è talmente importante nella società, che per Goffman non la religione, ma il genere, è l’oppio dei popoli, in quanto, in stretta relazione con l’età, è in grado di “spiegare quale dovrebbe essere la nostra natura fondamentale e come e quando essa dovrebbe essere esibita”, molto più che la classe e altre divisioni sociali. Il fatto che il genere sia costruito socialmente è stato dimostrato dall’antropologa Margaret Mead, la quale studiò 3 popolazioni, o culture, della Nuova Guinea: gli Arapesh, i Mundugumor e gli Ichambuli. Nei primi, gli uomini e le donne sono cooperativi, non aggressivi e attenti alle esigenze dell’altro/a. Nei secondi, entrambi i generi sono aggressivi, mentre nei terzi le donne sono dispotiche e a loro vengono affidate le principali attività di sussistenza, mentre gli uomini sono passivi, sensibili, delicati e si dedicano alle attività artistiche. L’unico modo per spiegare queste evidenti (e grandi) differenze, anche a confronto con la società occidentale, è accettare, appunto, il fatto che i ruoli di genere siano socialmente e culturalmente stabiliti e costruiti. In base a questo studio è stato possibile riconoscere la parola genere come un termine dinamico e cangiante, ovvero che cambia con il corso del tempo.
Il genere oggi
Nel 1996, Connell elaborò una gerarchia legata al genere che andava da chi deteneva più potere a chi ne deteneva meno. Questa era composta da due “parti”, dove una definiva la maschilità e l’altra la femminilità. Per quanto riguarda la prima, chi deteneva più potere era la maschilità complice (ovvero quella che si uniformava, identificata con la figura “perfetta” dell’atleta), seguita dalla maschilità subordinata e, in fine, dalla maschilità omosessuale. Per quanto riguarda invece la seconda, quella socialmente più accettata era la femminilità subordinata, seguita dalla femminilità enfatizzata e, all’ultimo posto, la femminilità resistente. Oggigiorno, invece, non si parla di gerarchie, ma si parla di identità di genere, per la quale si intende la percezione sessuata di sé e del proprio comportamento, acquisita attraverso l’esperienza personale e collettiva. Sulla base di questa è possibile parlare di ruoli di genere, ovvero le aspettative sociali e gli obblighi che si hanno connessi alla condizione femminile e maschile, di transgender, che è un termine ombrello in quanto racchiude una molteplicità di significati e indica un atteggiamento sociale e sessuale, e di transessuale, ovvero chi percepisce una discrepanza fra identità di genere e sesso anatomico, con conseguente avvicinamento al sesso cui si sente di appartenere, al punto da intraprendere una cura ormonale e un intervento chirurgico. Si parla poi di orientamento sessuale (eterosessuale, omosessuale, bisessuale), che è ben diverso dal transessuale, in quanto, ad esempio, una persona omosessuale può tranquillamente essere a proprio agio con il proprio sesso. In conclusione, oggigiorno si è a contatto con una pluralità infinita di personalità, data dalle relazioni ed interazioni fra le persone, che non è più classificabile in categorie generalizzate e magari anche i maschi (dall’atleta simbolo di virilità, al maschio omosessuale di Connell) inizieranno a festeggiare la propria festa (il 19 novembre, festeggiata in Italia dal 2013) pretendendo la propria caramella al limone.
Pietro Salciarini